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Roma ore 11

Regia di Giuseppe De Santis vedi scheda film

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La recensione su Roma ore 11

di OGM
8 stelle

Accade una sciagura e subito il tempo si ferma, consentendoci di osservare le singole persone ed ascoltare le loro voci una ad una. È in questo modo, entrando per un attimo dentro le loro vite, e raccogliendo frammenti delle loro storie, che possiamo arrivare a capire le ragioni lontane e profonde del drammatico evento, che non sono quelle cercate dalla cronaca, perché vanno ben oltre la responsabilità colposa di chi ha provocato l’incidente. Il crollo delle scale, avvenuto la mattina del 15 gennaio 1951 all’interno di un palazzina romana, è solo l’ultimo, disastroso anello di una concatenazione di fenomeni che spinse oltre 200 donne, provenienti da tutta la provincia, a fare ressa per un posto di dattilografa. Nell’Italia del dopoguerra, il lavoro femminile è un necessario, ma doloroso ripiego, in una società in cui il modello di riferimento è ancora quello di una donna sottomessa all’autorità del padre o del marito, ed il cui ruolo si definisce solo attraverso il servizio da lei reso all’interno della famiglia. All’epoca, la donna costretta ad “impiegarsi” si vedeva automaticamente relegata, agli occhi di tutti, in una condizione di svantaggio, tipica delle zitelle o delle poco di buono. Ragazze fuggite dal paese, orfane assunte come domestiche, figlie degeneri e ribelli, o, semplicemente, andate in sposa a un disgraziato, tutte facevano parte di quell’avanguardia della donna moderna ed autonoma che, però, lungi dall’essere un anticipo dell’emancipazione, era, di fatto, una sacca di emarginazione, all’interno della quale potevano essere esercitate, soprattutto da parte maschile, tutte le peggiori forme di sfruttamento, oppressione, umiliazione. La storia della donna lavoratrice inizia dunque all’insegna della rabbia e della tensione che, un giorno, in quel caseggiato di via Savoia 31, diventò tale da causare lo sfondamento di una ringhiera e la caduta e lo schiacciamento di decine di persone. Questa tragedia rappresenta l’ennesimo esempio della sventura che si abbatte sulla folla dei poveri, mentre il mondo, tutt’intorno, continua indisturbato a perpetrare le sue ingiustizie, addebitando alle vittime le spese delle cure mediche, e lasciando i colpevoli impuniti. La riflessione di De Sanctis ed Elio Petri si spinge però, come tutto il cinema del neorealismo, oltre la semplice denuncia sociale, per ritrarre,  nel bene e nel male, l’anima di un popolo ancora stordito dagli eventi bellici e che, con il suo disorientamento, col suo ondeggiare confuso tra speranza e pessimismo, mette a nudo l’imperscrutabile sostanza del destino: quello che trasforma i drammi collettivi in diabolici calderoni, in cui ad alcuni tocca la morte, ad altri l’angoscia, ad altri, paradossalmente, la fortuna ed una promessa di felicità, e ad altri ancora, la stessa, immutabile vita di sempre.

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