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The quiet one – Vita di Bill Wyman

Regia di Oliver Murray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The quiet one – Vita di Bill Wyman

di Speusippo
7 stelle

Bill Wyman

The quiet one – Vita di Bill Wyman (2019): Bill Wyman

 

Oliver Murray, regista britannico la cui carriera si è finora evoluta mantenendo una forte tangenza con l’ambito musicale, è colui sotto la cui direzione ha avuto origine “The Quiet One”, documentario dedicato alla figura del bassista Bill Wyman la cui pubblicazione ha riscosso le attenzioni del Sundance Film Festival. Per la prima volta, grazie al lavoro realizzato da Murray, è stato possibile non soltanto avvicinarsi a uno dei musicisti più schivi della musica del secondo Novecento, ma anche comprendere la sua prospettiva rispetto ad alcune delle vicende che ne hanno segnato la peculiare carriera.

 

Il documentario, che fluisce senza brusche soluzioni di continuità, pone il proprio baricentro nella sala ospitante l’archivio di Bill Wyman, sovente ritratto di spalle, con discrezione, mentre siede alla propria scrivania. La macchina disegna traiettorie posate e lineari spostandosi tra le alte scaffalature ordinatamente disposte nella stanza: vecchie scatole etichettate con cura, pile di bobine, macchine fotografiche attempate, obiettivi d’ogni genere, registratori a nastro provenienti da epoche ormai lontane... Una simile scelta dissipa qualsiasi dubbio: l’archivio di Wyman, oltre a presentarsi come un luogo contraddistinto da rara e fascinosa preziosità, è oggi il punto d’osservazione più adatto per chi voglia soffermarsi sulla carriera del grandioso bassista dei Rolling Stones. La narrazione proposta da Murray, invero, si serve direttamente dei materiali conservati da Wyman (filmati, registrazioni di vecchie interviste, fotografie, etc.), intrecciandoli con riprese di repertorio, colorate sequenze a cartoni animati, e testimonianze vocali – a eccezione di Wyman e dell’attuale moglie Suzanne Accosta, tutti gli illustri ospiti coinvolti nel racconto, da Eric Clapton a Charlie Watts, compaiono esclusivamente mediante la propria voce. L’esito complessivo si configura come una morbida sinfonia della memoria in cui Wyman detta tempi e temi, procedendo sempre con gradevole agilità da un capitolo all’altro: tra il bianco-e-nero degli anni Sessanta e la colonna sonora valorizzata da alcuni dei grandi successi degli Stones, il bassista tratteggia con animo indulgente le diverse fasi della propria vita, dalla bizzarra infanzia al segnante soggiorno in Francia che una critica situazione fiscale patita durante i primi anni Settanta (ossia il periodo nel quale vide la luce il leggendario “Exile On Main St.”) impose alla band, fino alle attività più recenti – in particolare, l’avventura costituita dai Rhythm Kings.

 

Sul piano strutturale l’articolazione del documentario, che ordina le vicende di Wyman rispettandone lo svolgimento cronologico, presenta alcune delle asimmetrie che con rilevante frequenza è possibile individuare nei materiali votati alla ricostruzione della non ancora conclusa epopea degli Stones: siano saggi o documentari, spesso – ciò che accade anche in “The Quiet One” – un’ampia partizione è focalizzata sul primo decennio di attività della band (ossia gli anni Sessanta, che corrispondono al periodo della formazione, del primo successo globale, degli eccessi, dell’era hippie, etc.), mentre le partizioni restanti si restringono in misura crescente (ad esempio: gli anni Novanta, coincidenti con il grande rientro in scena, vengono soltanto abbozzati: fatto in parte comprensibile, se si considera che con il tempo i membri della band sono invecchiati, hanno scelto vite più regolari e hanno trasformato la band stessa in una sorta di ben oliata industria). Una rilevante eccezione, in questo senso, si può riscontrare nell’affilata autobiografia di Keith Richards, “Life” (2010), all’interno della quale il chitarrista, oltre a indugiare diffusamente su tutti i complessi periodi della propria esistenza, spende parole piuttosto impietose, seppur veritiere, nei confronti di Wyman – che nel proprio documentario, invece, parla raramente degli altri membri della band, al più concedendo qualche breve commento intriso di discrezione. In “The Quiet One”, tuttavia, la narrazione non tocca soltanto la dimensione degli Stones, benché quest’ultima sia stata per lo stesso Wyman una realtà altamente totalizzante: Murray, dominando con sufficiente abilità la complessità del proposito, è riuscito a inserire nel documentario anche sequenze più vicine al vero e proprio Wyman. Si tratta sia di momenti nei quali il bassista affronta le proprie vicende personali (i conflitti con il padre fortemente legato alla classe proletaria, la dipendenza dal sesso, lo scarso interesse per le droghe, l’amore per Gedding Hall, i problemi legati all’affidamento del figlio Stephen, la conoscenza con Marc Chagall, il terribile matrimonio con Mandy Smith, etc.) sia di passaggi strettamente legati al mondo musicale. Proprio questi ultimi consentono di meglio sondare il profilo di Wyman in relazione all’attività che ne ha definito la vita: suonare il basso elettrico. Si scoprono così gli idoli del musicista britannico, da Chuck Berry a Donald Dunn, passando per Eddie Cochran e Howlin’ Wolf; inoltre, tra una scena e l’altra Wyman non soltanto descrive il proprio approccio al basso, ma riceve anche gli elogi di nomi eminenti: tanto Glyn Johns quanto Eric Clapton, infatti, ne pongono in risalto lo stile animato da intelligente essenzialità –  Clapton, in particolare, si spinge a individuare nel sodalizio ritmico tra Wyman e Watts la chiave del successo degli Stones. Significative risultano anche le considerazioni espresse dal bassista in relazione alla propria carriera come solista: ne parla con umile soddisfazione, identificando in “(Si Si) Je Suis Un Rockstar”, singolo risalente all’’81, uno dei più felici apici della propria parabola indipendente. In ambito musicale, ad ogni modo, è a Ray Charles che, sorprendentemente, il bassista tributa le parole più emozionate: Wyman, infatti, lo definisce come il musicista del XX secolo che predilige, e la sequenza finale del documentario, nella quale il bassista rivela un aneddoto relativo proprio a Ray Charles, è tanto toccante quanto illuminante: svela indubbiamente uno dei lati più nascosti dello stesso Wyman.

 

Complessivamente, il risultato conseguito da Murray presenta diversi pregi: oltre alla già citata fluidità, è bene evidenziare che il documentario riesce a congiungere in maniera armoniosa le varie forme narrative di cui si avvale, restituendo così un insieme di immagini che ne raccontano il protagonista con coerente chiarezza. Non manca, tuttavia, qualche scelta opinabile: di là da secondarie questioni di ordine filologico come la decisione di introdurre i tour dei primi anni Ottanta, finalizzati alla promozione di “Tattoo You” (1981), con un brano proveniente dall’album precedente (trattasi di “Miss You”, che fu comunque incluso nella tracklist assemblata per i concerti di quel periodo), pare opportuno evidenziare soprattutto l’impressione di occasione mancata che talvolta si avverte durante la visione. Benché Murray sia riuscito a evitare digressioni nozionistiche o semplicistiche, il documentario sembra a tratti mancare di profondità: come se il regista, forse a causa di una vicinanza con il bassista troppo stretta e pertanto troppo limitante, fosse stato costretto a comprimere certe sequenze, a rinunciare a certi materiali, a pacificare in misura eccessiva certi passaggi. O forse lo scopo di Murray era di ottenere un documentario che anche nella sua confezione formale rispecchiasse il proprio protagonista: un uomo mite e bonario, sincero rispetto a sé stesso e ai propri errori, umilmente dedito al piacere della musica, discreto e composto dinanzi ai momenti più difficili, affettuosamente innamorato della vita.

 

“The Quiet One” non presenta il carattere brillante di “Stones In Exile” (il magnifico documentario del 2010 diretto da Stephen Kijak) o la vivacità di “Let’s Spend The Night Together” (il film live-concert del 1981 diretto dallo sventurato Hal Ashby). Non è nemmeno dotato della vena goliardica e dell’ingenua malinconia che pervadono “Io e gli Stones”, il testo autobiografico del 1988 scritto da James Phelge, che fu coinquilino degli Stones nei primi anni Sessanta. È, ad ogni modo, un racconto ben orchestrato, nonché impreziosito dagli elementi di cui sopra. Un ritratto a pennellate morbide e contenute, degno d’essere appeso nella lunga galleria che ha gradualmente accumulato e continua ad accumulare le testimonianze in grado di narrare la strabiliante, straripante, stravolgente storia della Greatest-Rock’n’Roll-Band-In-The-World.

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