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Il Corriere - The Mule

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Il Corriere - The Mule

di scapigliato
9 stelle

Fragile, secco, ricurvo, scarnificato, scheletrico e disossato. Clint Eastwood mette tutto il suo corpo dolente al centro dell’idea estetica di The Mule. Tant’è che il film, che racconta la vera storia di Leo Sharp, un uomo di 90 anni che per esigenze economiche si mette a fare il corriere della droga per i cartelli messicani, non tematizza l’ormai stanca e stereotipata narrazione del narcotraffico, purtroppo oggi molto di moda nei media di tutto il mondo.

L’attuale riscoperta del mondo criminale del narcotraffico con le sue gerarchie, i suoi rituali, il proprio codice mafioso e tribale, le sue ossessioni per la ricchezza, l’ostentazione del lusso, il patologico piacere per l’obbedienza e altre derive antropologiche, sta innervando pericolosamente il XXI secolo. Da Escobar (Andrea di Stefano, 2014) a Loving Pablo (Fernando León de Aranoa, 2017), passando per le serie tv Narcos (Brancato/Bernard/Miro, 2015-2017) e Narcos: México (Bernard/Miro, 2018), il narcotraffico fa la sua irruzione nella quotidianità di ragazzi sprovvisti di strumenti critici, facilmente plagiabili; si insinua anche nelle crepe di adulti in crisi, frustrati della propria povertà esistenziale diventando così un fenomeno sempre più normalizzato, accettato pure dalle famiglie che guardano questi prodotti come una normale show televisivo. Un po’ come accade in Italia con Gomorra (Matteo Garrone, 2008) e Gomorra – La serie (Roberto Saviano, 2014-in corso), mentre meno idealizzanti sono le ottime serie spagnole come Fariña (Campos/Neira, 2018), Gigantes (Enrique Urbizu, 2018) o Vivir sin permiso (Aitor Gabilondo, 2018). In queste produzioni, il crimine paga, in successo televisivo, e ridefinisce un immaginario in crisi di icone e mitopoiesi valide per raccontare il reale, il contemporaneo, saturando così la narrazioni di stereotipi criminali, codici banditeschi e fascino per chi ha il coraggio di arricchirsi sfregiando l’etica e lo Stato.

Clint Eastwood invece, prende una storia più o meno simile, che radica nel bisogno concreto di soldi, ma evita egregiamente la tematizzazione ipertrofica della narrazione e tratteggia i tópoi del genere con leggerezza, lasciandoli sullo sfondo della vera storia, ovvero la coraggiosa decisione di un uomo estremamente anziano di rischiare la pelle per rimettere a posto le cose. In The Mule infatti, il regista si concentra più su se stesso che sul plot criminale. Non ci sono inseguimenti, sparatorie, regolamenti di conti. Il cliché narco è presentato con distacco e con ironia, concedendo giusto qualche rapida scena al thrilling. Per il resto Eastwood mette in scena la sfacciata vita di un veterano di Corea che ha preferito il lavoro alla famiglia, insensibile, un poco razzista, ma in fondo in fondo umano ed empatico, capace di rallegrare ogni ambiente e ogni persona che lo incontra.

L’etica eastwoodiana, in epoca trumpiana, non perde un colpo. Al centro c’è sempre l’uomo – bianco, nero, messicano, gay o lesbica – protagonista di un circo pittoresco che va dal sacro al profano, dal corretto allo scorretto, e che nella dimensione etica del regista gode sempre della luce migliore, una luce umanista che lo distingue dagli eroi posticci dei film mainstream. Eastwood, per esempio, è sempre stato un cowboy, un poliziotto o un proletario. Non ha mai interpretato avvocati di lusso, medici stimati, politici corrotti o benemeriti. È sempre stato il proletario che vive in tuguri o case fatiscenti, nella penombra di un’architettura urbana o rurale che ne umanizza la tensioni sovversive ed eversive, pacificandole.

Anche in The Mule, Eastwood dà il meglio di sé come regista, condensando in due ore, sebbene non poche, le dodici lunghe e pericolose corse del nonagenario corriere Earl Stone, in cui, grazie anche alla sceneggiatura, il regista preferisce dedicarsi alla triste figura del protagonista, un simulacro mortifero che si aggira tra uomini grossi, tozzi, ipertrofici, meticci e olivastri, tra belle ragazze mezze nude, ville con piscina, lusso sfrenato, piuttosto che indagare i meccanismi del narcotraffico o le vite degli stessi trafficanti. Eastwood evita la mitizzazione del mondo narco, delle culture gangsteristiche e mafiose, che vanno condannate senza remore, capaci di distruggere gli assetti politici di un paese e quelli di ogni famiglia che ne viene danneggiata. Eastwood firma un narco movie dove il narcotraffico e i suoi delinquenti non hanno lo spazio sufficiente per creare empatia, nonostante alcuni personaggi siano ritratti più umanisticamente di altri, e vengono ridimensionati dall’elemento narrativo principale del film che è il corpo antagonista del vecchio corriere, capace di battute lapidarie e di una verve spiazzante che gli permette di oscurare la forza muscolare dei cartelli della droga.

Clint Eastwood, a suo modo, ha dissacrato il fascino del narco movie sconfessando la liturgia della modulazione narrativa del genere, mettendo appunto al centro del discorso il corpo dolente e la voce sofferta di un vecchio senza più nulla da perdere. The Mule è un film prosaico in cui manca l’epica di Gran Torino (Clint Eastwood, 2008) o il lirismo di Million Dollar Baby (Clint Eastwood, 2004). Un film dove tutto succede senza bisogno di climax o svolte narrative patetiche: tutto è asciugato e rappresentato realisticamente, con un pizzico di ironia a parodiare il mondo muscolare del narcotraffico e delle forze dell’ordine.

Anche l’interpretazione di Eastwood è abbastanza lontana dai suoi schemi abituali. Il suo Earl Stone è un personaggio brillante e sorprendente, affabile e di buona compagnia, un finto white savior  - perché non dimentichiamo che Eastwood “non sa niente”, per parafrasare il suo Red Garnett di A Perfect World (Clint Eastwood, 1993). Per tutta la prima parte del film tutto gli fila liscio e sembra avere in mano le sorti del gioco. Si fa sprezzo delle rigide regole del cartello messicano, si guadagna la fiducia e la simpatia dei narcos e si gode i piaceri ottenuti dal suo nuovo rischioso lavoro, regalandoci così un’interpretazione divertente e divertita di un pessimo padre e di un pessimo marito. Solo in seguito, quando gli eventi inizieranno a precipitare, Eastwood torna a regalarci le sue espressioni aspre e scontrose scolpite nel marmo del suo viso iconico, come quelle smorfie irriverenti e burbere e quei suoi sguardi glaciali e ferini che sanno atterrare un bullo in un solo secondo. In questa fase il personaggio di Eastwood si trasforma in un vecchio Callahan senza più pistola, senza più virilità, senza più famiglia né dignità, ma con ancora l’audacia dell’uomo comune, del solido antieroe americano che va per la sua strada seguendo la propria etica. Questa indomabile figura regalataci da Eastwood durante tutta la sua carriera riemerge dalla maschera pestata a sangue del vecchio Earl che va in contro al destino, senza enfasi, senza pathos ricattatorio, senza epica alcuna.

In The Mule, Eastwood è il simulacro della morte, l’immagine dell’uomo nei suoi ultimi istanti di vita, un’immagine però non pacificata né addomesticata, che sa muoversi con dignità e coraggio in mondi che non sono i suoi, contrastando filosofie che non sono le sue, portando avanti la personale etica pragmatica dell’uomo comune contro ogni psicologizzazione borghese. Infine, Eastwood passa buona parte del film a chiedere scusa, ad ammettere gli errori che ha fatto. E c’è da credergli. “So, help me god. This is the last one” si incoraggia di fronte all’inevitabile. “For what it’s worth, I’m sorry for everything”, ed è già testamento e leggenda.

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