Regia di Claudio Giovannesi vedi scheda film
Un bel film sull’educazione, ancora più che sulla malavita. Evidentemente si giova dell’omonimo romanzo di Saviano, come 11 anni prima per Gomorra.
Il film merita attenzione sia per ciò che dice, sia per ciò che non dice.
Partiamo da ciò che il film dice. Volgarità e, soprattutto, disumanità, la fanno da padrone. Nel suo realismo, tale pellicola è ripugnante. Ma da vedersi, perché parla di storia. Quella che tutti i napoletani, e quasi tutti i meridionali (e non solo loro) conoscono alla perfezione, purché rimanga nell’ambito del non scritto, del non dichiarabile. Purché rimanga confinato all’esterno di tutto ciò che può essere oggetto di riflessione razionale, i cui oggetti si possano esibire con trasparenza. In poche parole, questa realtà deve restare, per intento ostinato delle sue classi dirigenti, al di fuori di ogni civiltà democratica.
È un pugno allo stomaco. Raccapricciante quanto si vuole, ma impressiona che ciò avvenga nel nostro continente. Ancora peggio, che accada nella nostra nazione. Abitudinariamente. con disinvoltura. Questi minorenni armati sfrecciano in piena città compiendo delitti in serie, e reati plurimi in contemporanea: vanno sullo scooter in due, probabilmente senza patente, senza casco, armati, minacciano, sparano, uccidono. Tutto in pochi secondi. Con una esibizione di normalità che lascia esterrefatti. Ma che al sud è verità, specie nelle grandi città, anche se non solo.
Terribile l’ammirazione per oggetti kitsch; per vestiti di cattivo gusto; e soprattutto per le armi, definite “bellissime” da chi, nel vederle, “crede che sia arrivato babbo natale”. L’ottica primitiva dell’ostentazione della violenza, dell’arroganza, del potere, è qui ben esemplificata. Il mito è quello dei soldi facili, che permettono di uscire da un anonimato e da una sofferenza terribili da sopportare. Non esiste la normalità intesa come accettazione dei propri limiti realistici, con cui convivere, da superare: esiste solo la via breve, che mette a tacere ogni dubbio. Infatti canne e cocaina sono abitudini quotidiane, per distorcere la percezione della propria realtà.
I protagonisti sono quindicenni che sono cresciuti vittime di due infezioni provenienti da due piani sociali paralleli: quelli della comunità di appartenenza, malata sotto il profilo mentale, umano e culturale, dato che vede solo nella violenza il mezzo per la possibile affermazione di sé nella vita; e quello della televisione, specialmente quella americana e berlusconiana ma non solo, che celebra il mito del successo senza fatica, senza cultura, senza responsabilità. Nell’idiozia del gradimento legato solo al pettegolezzo più ignorante. Ignoranza che infatti viene sospinta al calor bianco dalle tv commerciali, del biscione e non solo, ma anche da quelle pubbliche, che poi risentono di interessi pubblici controllati da osceni interessi di doviziosi privati.
Il film del valido Giovannesi impressiona anche per ciò che non dice: genitori, stato, valori, riflessione etica, scuola sono grandi assenti. Proprio la mancanza di una guida educativa rappresenta il brodo di coltura più fecondo per la peggior disumanità.
Lo stato latita, in quanto lascia che la criminalità e la violenza prosperino e siano vincenti, e che quindi l’onestà e la serietà e la bontà siano perdenti: eppure tutti sanno tutto, al sud. Si lascerà prosperare il male, perché? Per calcolo elettorale, soprattutto, oltre che per lazzaronaggine, paura e meschino tornaconto individualistico: non ci sono altre grandi ipotesi.
Manca la famiglia: il protagonista ha una madre incapace di essere tale, perché sa benissimo che l’improvvisa prosperità può arrivare solo dalla trionfante criminalità del figlio, ma non dice nulla. La sua fidanzata invece ha un padre un po’ più serio, che la tiene sott’occhio, si fa per dire. Mentre questi ne hanno un solo, gli altri sembrano proprio non avere genitori. I rapporti familiari passano in primo piano solo quando, a livello tribale, bisogna difendere l’interesse primitivo, di potere, ricchezza e onorabilità, del proprio clan. Per il resto, per le cose che davvero contano, la famiglia non esiste. Tradizioni inveterate di ignoranza, e stupidità, qui vengono mese in evidenza: non solo coi cantanti neomelodici, e con i matrimoni che servono più che altro all’apparenza.
Manca la scuola, e quindi mancano i servizi sociali, che dovrebbero integrare il mancato supporto della famiglia, intervenendo in favore dei minorenni che non hanno colpa, se hanno una famiglia incapace di provvedere ad essi. Mancando la scuola, manca la garanzia minima (almeno sulla carta) della prevenzione nei confronti della devianza; ma anche manca la garanzia minima della possibilità di ragionare eticamente sulle cose. Infatti questi crescono da ragazzini come mostri, perché hanno avuto solo esempi di mostri, molto probabilmente, i quali a loro volta sono stati vittime del fatto di avere solo mostri come riferimento… e via così. Il cane si morde la coda. Questi ragazzetti hanno contenuti di una miseria totalizzante. Sono anche normali, neppure dei diavoli in apparenza: ma hanno socialmente appreso ciò che la loro società aveva culturalmente da trasmetter loro: ovvero l’arroganza. Che comporta la totale assenza di riflessione sulle conseguenze morali, sugli altri ma anche su di sé, dei propri atti.
Questo film fa centro, pur nella sua apparente prosaicità. Spoglio, quotidiano, denso di situazioni trite, rappresenta comunque un alto monito educativo: alle responsabilità che non solo ogni individuo (educatore e non) ed ogni elettore ha, ma anche, e soprattutto, alla responsabilità dello stato. Le responsabilità che possono essere assolte davvero solo in sede politica. E non solo con la repressione; ma, anzi, soprattutto con la prevenzione. Il che vuol dire, a livello locale: assessorati ai servizi sociali, all’istruzione, alla cultura. Senza il retto (e non quello spesso ricorrente, corrotto e inefficiente) funzionamento di questi ultimi, gestiti in base alle indicazioni di un elettorato degno di tal nome, non c’è speranza di sconfigger le mafie.
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