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Aurora

Regia di Friedrich W. Murnau vedi scheda film

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La recensione su Aurora

di omero sala
5 stelle

 

 

La complessa personalità del regista e l’enorme importanza che riveste nella storia del cinema impone, prima di parlare del film Aurora, alcune premesse biografiche e una sia pur breve presentazione della sua fisionomia artistica.

 

Friedrich Wilhelm Murnau (1888-1931), tedesco della Renania (per la precisione di Bielefeld), faceva di cognome Plumpe, ma Friedrich scelse lo pseudonimo meno banale di Murnau, dal nome di una piccola città bavarese sul confine austriaco, quando - notato da un celebre regista teatrale (Max Reinhardt)  - iniziò a lavorare come attore ad Heidelberg, abbandonando la facoltà di Lettere (dopo aver abbandonato Storia dell’Arte e, prima ancora Filologia).

 

A 26 anni, nel ’14, fu richiamato in guerra.

Nel 1917, era il terzo anno di guerra, entrò nell’aviazione e, nel corso di un’operazione, dopo un atterraggio fortunoso (e sospetto) in Svizzera, fu internato nel campo di prigionia ad Andermatt, presso il passo del San Gottardo (scampando così alla disfatta tedesca dell’anno successivo); da internato non se la passa va poi così male, riuscendo perfino a partecipare e a vincere un concorso che gli permise di organizzare uno spettacolo teatrale a Lucerna, mentre alcuni suoi amici, in guerra, ci lasciavano la pelle (fra i tanti è da citare - per ricordare l’omosessualità di Mornau - il suo compagno Hans, caduto sul fronte russo). 

 

Nel ’19 Mornau è a Berlino dove inizia a lavorare nel cinema girando una decina di film in sei o sette anni (la maggior parte andati perduti): fra questi spicca il famosissimo film per il quale è conosciuto in tutto il mondo: Nosferatu il vampiro, ispirato al romanzo Dracula (1897) di Bram Stoker (Il titolo diverso da quello del libro, così come le ambientazioni e nomi, non gli risparmiano la denuncia e la condanna per plagio). 

L’enorme successo gli procurò un contratto a Hollywood (con William Fox, quello della Century Fox) dove realizzò Aurora.

In America però, con la Fox, non funzionò tanto bene. 

Capita spesso che le esigenze dei produttori non coincidano con l’ispirazione degli autori, e quindi non incoraggino (o, peggio interferiscano e castrino) la genialità degli artisti e la creatività.

Murnau piantò tutti e partì per la Polinesia, per girarvi il suo ultimo film (Tabù, del 1931) e poi tentare di far ritorno a Berlino. Il film non soddisfò nessuno: né il co-regista (che aveva intenzioni documentaristiche e litigò con Murnau abbandonando la collaborazione), né i finanziatori (Murnau si indebitò), né i distributori (entusiasti del film, ma bloccati dalla censura americana perché il film mostrava i seni scoperti delle native polinesiane). 

 

Nel 1931 Murnau fu vittima di un incidente stradale (uno scontro frontale con un camion a santa Barbara, in California). La macchina era guidata dal ragazzetto filippino che Murnau aveva assunto come segretario e amante.  

   

Murnau è universalmente conosciuto come uno dei principali autori appartenenti all’espressionismo tedesco, un movimento artistico sorto in Germania all'inizio del Novecento e sviluppatosi enormemente fino a dopo la Grande Guerra e prima dell’avvento di Hitler, nella pittura, oltre che nel cinema, e nella letteratura, nel teatro, nella musica. 

È riconoscibile principalmente dalla presenza di distorsioni antifigurative, di rappresentazioni della realtà non descrittive, dall’uso esasperato delle luci e delle ombre, dalla predilezione per situazioni allucinate, recitazioni cariche, trucchi grotteschi, andature sbilenche, pose innaturali, contrasti, ricerche di effetto. 

Nella pittura hanno dominato il periodo Dix e Grotz (cito solo i miei preferiti) e Kirchner, con le loro opere angoscianti, antiborghesi, orripilanti; nella letteratura abbiamo, gigante su tutti, l’inclassificabile Kafka; nella musica Schoenberg, da cui ha inizio la musica atonale e dodecafonica.

 

Il cinema, in diversa misura, è fortemente intriso, come tutta la società del dopoguerra, da queste inquietudini e diventa quasi, anche per la novità del fenomeno, la manifestazione artistica che più “rappresenta” l’epoca. 

E ci dà giganti e capolavori come Stellan Ryeo con Lo studente di Praga del 1913), Ernst Lubitsch con La bambola di carne (1919), Robert Wiene col Il gabinetto del dottor Caligari (del 1920), Paul Wegener e Carl Boese (con Il Golem, leggenda cabalistica, del 1920); e Murnau (con Nosferatu, del 1922), Paul Leni (con tre film: Il gabinetto delle figure di cera, del 1924, Il castello degli spettri, del 1927 e L'uomo che ride, del 1928) e Lang (con altri tre: Il dottor Mabuse, Metropolis e M - Il mostro di Düsseldorf, rispettivamente del 1922, del 1927 e del 1931).

 

Aurora

Murnau è un vero innovatore del linguaggio cinematografico.

E lo è sia nelle sue prime regie tedesche prettamente espressioniste (con all’apice il già citato Nosferatu), sia come iniziatore della importante corrente cinematografica nota come Kammerspiel

Il film è stato girato in America dove Murnau giunge grazie alla fama raggiunta come espressionista. 

In Aurora però non troviamo dispiegato per tutto il film il rigore della scuola di partenza. 

Risulta evidentissima - e anche un po’ eccessiva e stridente - l’incoerenza formale fra le tre parti in cui è diviso il film (che racconta di un tradimento, di un tentativo abortito di uxoricidio, di un  ravvedimento con conciliazione, di un rientro a casa, di un lieto fine).

Nella prima parte (tradimento e del tentativo di omicidio) troviamo una cupezza che ricorda i più terrificanti film di vampiri, golem, sonnambuli assassini, pazzi, mostri vari e creature del male.

Nella seconda parte assistiamo a scene di riconciliazione in una città caotica e in un Lunapark frenetico come Metropolis.

Nella terza parte (l’anabasi, il ritorno) ritroviamo i toni foschi della prima parte (tempesta sul lago, naufragio, soccorsi nella notte).

Murnau nella parte centrale e nel lieto fine cede un po’ alle sirene del romanticismo e degli psicologismi, sicuramente -l’uno e l’altro - imposti dai produttori americani.  E qui non è lui, non convince.

Tanto appaiono splendide le inquadrature della notte del tradimento (i campi lunghi della sera nel bosco, le torbide scene d’amore, la perfidia dell’amante, la luna sul lago, il villaggio), tanto diventano disturbanti gli intermezzi in città col traffico macchiettisticamente caotico, la scena comica dal fotografo, troppo da slapstick comedy hollywoodiana;  peggio la scena dal barbiere dove indispone oltretutto la presentazione, da parte di un omosessuale come Murnau, di un barbiere gay tutto mossette sceme e occhioni sgranati.

Certo, la maestria è sempre immensa, rivoluzionaria, innovativa: Murnau usa come nessuno prima di lui la macchina da presa, i movimenti, i primi piani (espressivi, appunto, angelici o demoniaci, ma comunque tali da rendere superflue le didascalie, sempre presenti e quasi disturbanti); usa le doppie esposizioni, le dissolvenze, gli sfondi scenografici o virtuali (effetto Schüfftan, antenato del croma key); costruisce architetture incredibili, geometrie audaci e città fantasmagoriche.

Ma il risultato alla fine appare un po’ fiacco. E solo il rispetto di un gigante della storia del cinema ci induce a guardare con attenzione questo film per scoprirci, oltre le ruffianerie, la genialità del pioniere e i fondamenti della sintassi cinematografica.  

 

 

 

 

George O'Brien

Aurora (1927): George O'Brien

 

 

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