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Racconto d'inverno

Regia di Eric Rohmer vedi scheda film

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La recensione su Racconto d'inverno

di degoffro
8 stelle

Il secondo episodio del ciclo “Racconti delle quattro stagioni” si concentra su un personaggio che da più parti è stato definito il meno intellettuale tra tutti quelli rohmeriani e con cui inizialmente è difficile entrare in sintonia. La trentenne Félicie, in effetti, persa nel suo amore adolescenziale per Charles, cuoco con cui ha trascorso un’appassionata e coinvolgente vacanza d’amore in Bretagna, non brilla per simpatia. L’incipit è uno dei momenti più esplicitamente erotici e sensuali di tutto il cinema di Rohmer (i due protagonisti sono infatti quasi sempre nudi ad evidenziare una passione travolgente, quasi incontrollabile). Il regista alterni momenti romantici (c’è anche una musica di sottofondo a commento, caso piuttosto raro nel suo cinema) ad altri di realistica intimità, l’ultimo dei quali concluso da una frase premonitrice che Charles, dopo che hanno fatto l’amore, rivolge alla compagna: “Sai che sei una bella incosciente?” Ed infatti dopo che i due si sono salutati alla stazione e Félicie ha lasciato il suo indirizzo all’innamorato, si passa a cinque anni dopo: la donna lavora in un salone di bellezza a Parigi e ha una figlia, Elise, avuta proprio da Charles. Di quel suo grande amore però, dopo quella indimenticabile vacanza, non ha più avuto notizia. Gli aveva infatti dato, per un incomprensibile “lapsus”, come lo definisce lei stessa, un indirizzo sbagliato, così che Charles non ha mai potuto rintracciarla (dal canto suo Charles, in partenza per gli Stati Uniti, non aveva potuto lasciarle alcun recapito). Ora Félicie si divide tra due uomini: il parrucchiere Maxence, proprietario del locale in cui lavora e il bibliotecario Loïc. Ai suoi occhi Loïc e Maxence, tra l’altro assai diversi anche tra loro (e Rohmer non perde occasione per sottolinearlo) non reggono minimamente il confronto con l’idealizzato Charles (“Il mio principe azzurro è un cuoco!” dirà non a caso Félicie, a confermare i toni volutamente favolistici, da fotoromanzo, dell’incipit, ma tutto il film può essere letto come una fiaba contestualizzata in una realtà quotidiana, comune, moderna, anche banale). Il colto Loïc è il classico bravo ragazzo (ed infatti piace tanto alla mamma di Félicie che le dice: “Non credo tu possa trovare ragazzo migliore di lui. Io lo preferisco al tuo parrucchiere!”). Su di lui però Félicie pare non avere dubbi: “Loïc non è affatto il mio tipo di uomo, né fisicamente né moralmente. E’ troppo intellettuale. Va bene come amico ma alla lunga mi fa sentire inferiore. Non lo so… E’ troppo dolce. Non mi piacciono le persone che posso buttare a terra con un soffio. Non voglio essere dominata intellettualmente ma solo fisicamente. Mi piacciono gli uomini che mi sembrano forti non quelli che stanno sempre sui libri.” Félicie resta egoisticamente con Loïc solo “per far pressione su Maxence. Non volevo cedere prima.” Il “parrucchiere”, infatti, è sposato e in più di un’occasione ha promesso a Félicie che avrebbe lasciato la moglie per iniziare con lei una nuova vita: “Mi aspettavo solo che lasciasse quella donna. Non doveva fare altro che questo!” si giustifica Félicie con la madre, sempre più perplessa di fronte ai suoi atteggiamenti contraddittori ed incomprensibili. Félicie è così convinta di essere nel giusto che quando comunica a Loïc la sua intenzione di andare a vivere con Maxence, quasi fa passare il suo gesto come un favore che fa al ragazzo: “Restando ti impedirei di trovare la donna della tua vita. Tu hai bisogno di una donna che ti ami quanto la ami tu, almeno. In fondo per te è una fortuna che io parta. Ti amo. Non tanto da vivere con te ma abbastanza per non rovinarti la vita” gli dice. Non che non provi un minimo di sofferenza: “Neanche per me è divertente. In un certo senso lo amo più di Maxence. E se fossi rimasta a Parigi avrei voluto frequentarlo come amico, ma non credo avrebbe accettato.”, confessa alla madre, ma nel suo cuore è certa che la scelta che sta per fare è la più coerente. Dice infatti alla sorella: “C’è una prova che non amo Loïc. Non vorrei avere figli da lui, mentre ne vorrei avere da Maxence.” A Nevers con Maxence, uomo piuttosto concreto e rassicurante, capace di dominarla fisicamente come piace a lei, Félicie pensa di trovare quello che cerca: “Mi darà la calma di cui ho bisogno!” In realtà l’insoddisfazione amorosa di Félicie non può trovare pace. Nevers è solo un’illusione (“Un’impressione, non funzionava più! Prima vedevo solo i vantaggi, poi solo i difetti.” dirà a Loïc) e bastano poche ore e una visita illuminante nella cattedrale (come ne “La mia notte con Maud”) per capire che il suo posto non è lì. Félicie si ripete, tanto che anche a Maxence, come in precedenza a Loïc, dice: “Non ti amo abbastanza per vivere con te. Non dovevo legarmi a qualcuno che non amavo alla follia.” La donna è anche autocritica (“Sono una pazza!” dice di sé mentre sta per lasciare Maxence) ma si rende conto che può vivere solo con un uomo per cui prova un amore totalizzante e quell’uomo non può che essere il suo Charles. In fondo è proprio per questo che non l’ha mai sfiorata nemmeno l’idea di abortire: “E’ contro i miei principi. Non però principi religiosi. La religione ed io non andiamo molto d’accordo. Piuttosto diciamo principi intimi, direi… Non amo quello che è contro natura. Avevo perso Charles ma almeno avevo la sua bambina. E delle fotografie.” La piccola Elise è la dimostrazione quotidiana e tangibile di quell’amore estivo fugace eppure assoluto e completo che non ha più avuto pari, l’unico legame vivo che la unisce ancora a Charles, al di là di indelebili ricordi e semplici fotografie. Come del resto gli aveva ricordato Loïc, prima della sua partenza per Nevers, quando Félicie gli aveva detto di amare Maxence: “Dicevi sempre che avresti amato un solo uomo, il padre dei tuoi figli.” Allora però Félicie replicava in modo all’apparenza consapevole e molto lucido: “Sì, ma c’è amore e amore. Charles lo amavo e lo amo ancora completamente. Maxence lo amo in un altro modo. Anche se mi piace fare l’amore con lui, non significa vero amore. Lui è l’uomo con cui mi piace vivere, anche se preferirei vivere con un altro che però non c’è. Molte donne vorrebbero un uomo diverso da quello con cui vivono, ma non esiste. E’ solo un sogno. Per me questo sogno è stata una realtà, ma una realtà assente. E’ a causa di Charles che me ne vado. Così lui rimarrà un sogno. E forse sarà meglio così!” Alla prova dei fatti però tutto risulta più difficile e anche la convivenza con Maxence si rivela fallimentare. “Lasciamoci almeno da amici” dice Félicie al compagno che come Loïc la lascia andare via passivamente, quasi rassegnato, forse ben consapevole che è sempre stata una seconda scelta. Al pari di Loïc, ha provato a sostituire Charles nel cuore della perennemente inquieta Félicie (a dispetto del nome), cercando di offrirle una condizione di vita che meglio si adattasse alle esigenze sue e della figlia, ma non ci è riuscito. Quando Loïc la rivede di ritorno si sfoga: “Ma insomma che cosa pensi? Che ti si trattenga con la forza? Che ti si butti ai tuoi piedi? Che si uccida per te?” Nonostante tutto i due riprendono a frequentarsi. Una sera a teatro, la visione del “Racconto d’inverno” di Shakespeare (Rohmer ha confessato che l’idea delle quattro stagioni è nata proprio da lì ed il testo di Shakespeare gli era piaciuto così tanto da inserire la scena finale della sua opera nel film, creando un formidabile ed illuminante parallelismo) dà a Félicie l’ulteriore conferma che “una vita di speranze vale più delle altre”. E la sua lunga attesa sarà finalmente premiata. Quando incontra Charles casualmente sull’autobus, il suo sogno d’amore si può così realizzare: l’uomo non è più una realtà assente. Rohmer si diverte ancora una volta con il gioco del destino, cita ironicamente se stesso (torna il calcolo delle probabilità pascaliano, già essenziale ne “La mia notte con Maud”, ma qui si parla anche di Platone, citato involontariamente da Félicie quando discute di reincarnazione, sostenendo che con Charles si sarebbe conosciuta in una vita precedente e questo spiegherebbe la loro totale complicità amorosa, mentre con Loïc, in una vita precedente probabilmente sarebbero stati solo fratello e sorella), scherza con lo spettatore (prima della rivelazione finale sembra che Félicie trovi una sua sintonia con Loïc, così almeno potrebbero far pensare quelle scene di felicità familiare), ma allo stesso tempo fa in modo che la conclusione non sia così lineare come può apparire a una visione superficiale (quel pianto di felicità della bambina può assumere diverse interpretazioni e lo stesso regista ha dichiarato che, a seconda dei casi, trova il finale del film allegro o triste). Se c’è un limite è il fatto che i due uomini, come spesso è capitato in Rohmer, soprattutto nei racconti morali, appaiono fin troppo remissivi ed arrendevoli (Loïc, prima di salutare Félicie per il capodanno, le dice: “Pregherò per la tua felicità, anche se non coincide con la mia!”), incapaci di reggere il confronto con Félicie. Il pianto incontenibile ed impetuoso della ragazza, abbracciata al suo Charles, fa il paio con quello di Delphine nel finale de “Il raggio verde” (e Marie Riviere compare nel film come occasionale amica di Charles sull’autobus, quasi in un’ideale passaggio di consegne). Una felicità contagiosa che conquista lo spettatore e fa dimenticare di colpo tutti gli atteggiamenti viziati, egocentrici, inconcludenti, scostanti e leggermente presuntuosi che in precedenza ce l’avevano resa un po’ distante, antipatica. In fondo lei caparbiamente vuole solo rimanere fedele al suo ideale di uomo che, peraltro, ha pure avuto la fortuna di conoscere per davvero e si deve darle atto che con i suoi due partner è quanto meno sempre stata chiara, fin dall’inizio: accettando di stare con lei, Loïc e Maxence accettano, sia pure loro malgrado, anche i rischi di un certo tipo di relazione che per la ragazza è sostanzialmente “di ripiego”. Come scrive Giancarlo Zappoli: ”Sta proprio nel personaggio di Félicie (che consente un ribaltamento rispetto a Racconto di primavera: là un uomo dinnanzi a tre donne e qui una donna che si confronta con tre uomini) il fulcro del film. Félicie non si basta come Anne, non ha la determinazione di Sabine, non possiede due case come Louise, non vive in un quartiere architettonicamente interessante come Blanche, non ha un lavoro sicuro, non ha un livello elevato di istruzione. Il grigiore della sua vita ben si accompagna alle scene invernali del film e invece contrasta con quelle luminose ed estive del prologo, a sottolineare che lì si era consumata la sua estate, quella che continua a sognare. Rohmer qui si assicura che il distacco della protagonista dal suo pubblico medio sia totale. Félicie è tanto semplice da far pensare che Rohmer ci voglia far sorridere di questa ragazza così insicura, così poco istruita, così priva di ideali. Ci accorgiamo poi come l’avanzare della narrazione, attraverso le attese e le sospensioni che sa costruire, ci conduca ad essere solidali con lei.” Attori sconosciuti al solito in magica luce sotto la discreta e premurosa direzione di Rohmer per un racconto la cui morale sembra riassumersi in un’affermazione che la protagonista fa alla madre, nel momento in cui la donna le ricorda che prima o poi dovrà pur fare una scelta: “Non ci sono buone o cattive scelte. L’importante è che non sia sempre obbligatorio scegliere.” In Concorso al Festival di Berlino.

Voto: 7

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