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House of Cards

6 stagioni - 78 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 1

  • 2013-2013
  • 13 episodi

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LorCio

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La recensione su House of Cards

di LorCio
10 stelle

Da quasi una decina d’anni lo studio della nuova serialità televisiva americana è riuscito ad imporsi come una delle più interessanti zone franche della speculazione intellettuale sull’audiovisivo: più o meno dall’avvio della seminale e capitale Lost, sono state redatte infinite, singolari e talora pretenziose trattazioni scientifiche sui prodotti televisivi più incisivi del decennio e allo stesso tempo si è affermato con una certa potenza, l’approfondimento spesso stimolante in rete ad opera di fans, patiti, ossessionati, amatori. Più che di critica, possiamo parlare di riflessione popolare attorno al prodotto televisivo ancor di più rispetto al cinema, tutto sommato per un maggiore grado di coinvolgimento e una maggiore possibilità di raggiungimento del pubblico.

 

Ora, al di là di questo cappello, dobbiamo intenderci: in rete il settore su presentato è sterminato, colmo di contributi notevoli quanto di autentiche idiozie, come d’altronde quello delle recensioni cinematografiche, e voglio sottolineare ancora una volta la condizione di “spettatore consapevole” rispetto all’amatorialità spinta da una parte e alla critica professionista dall’altra. Inoltre, e qui la chiudiamo con le introduzioni, benché abituati a scrivere di cinema, è necessario affermare non tanto la mia inesperienza alla riflessione televisiva, ma la constatazione che trattasi di due linguaggi diversi da affrontare con altrettanti strumenti diversi.

 

Insomma, il discorso va applicato anche ad House of Cards, certamente tra i più appassionanti esempi di serialità contemporanea, ma soprattutto uno dei punti di contatto più forti tra il lessico televisivo e il linguaggio del cinema da un punto di vista tecnico-artistico ed inoltre incrociato, da un’ottica editoriale-produttiva, con il mondo dello streaming in rete. La puntualizzazione risulta necessaria per capire il pubblico della serie.

 

Il coinvolgimento del peso massimo di David Fincher (regista del primo episodio e produttore esecutivo) e del talento multiforme dell’immenso Kevin Spacey attira lo spettatore avvezzo ad una certa cinematografia americana, un po’ autorale e un po’ commerciale, il cinema delle grandi confezioni tecniche che impacchettano narrazioni mai banali né mediocri. Spacey, d’altronde, è attore di film di culto, se non proprio attore di culto, e questo culto è la sua quota azionaria nell’operazione. La stessa confezione tecnica di House of Cards riesce a trovare una buona sintesi fra sontuosità del grande schermo e codici del piccolo schermo.

 

In un ambito narrativo, House of Cards rappresenta un progetto televisivo ambizioso (tre annate e non di più) che per poter andare avanti può e deve fare a meno della brutalità dei meccanismi editoriali televisivi e si rivolge al pubblico d’elezioni delle serie tv: il pubblico degli streaming selvaggi, incapace di godersi la puntata e di elaborarla nel corso della settimana e bramoso di vedere subito l’episodio successivo pur di discuterne in salotti interattivi e di conoscere lo svolgimento della trama, è ricondotto nella legalità di una piattaforma streaming che produce ciò che mette on line. E infatti la serie è disponibile immediatamente nella sua completezza.

 

La storia è l’adattamento americano di un romanzo britannico ambientato ai tempi della Thatcher con tutti i dovuti distinguo tra le due realtà politiche ed ha una matrice shakespeariana: è il racconto della vendetta architettata dal capogruppo democratico alla Camera che, non nominato dal nuovo presidente alla carica di segretario di stato per equilibri di partito, resta al suo posto (che in realtà ha un potere assai più incisivo benché meno prestigioso – e sta qui tutto il dramma, nella brama del potere per il potere, come non a caso si verificherà nei due inquietanti finali di stagione) e fa giustizia personale nei limiti della costituzione e senza scrupoli. L’assiste la fedele e altrettanto spietata moglie, che incredibilmente si occupa di beneficenza.

 

Il menage matrimoniale dei coniugi Underwood meriterebbe la penna di un grande analista, tale è il livello di fiducia e fedeltà tra i due: Frank e Claire si alimentano della loro mancanza di barriere morali al fine del raggiungimento del proprio scopo, due drogati del e dal potere che comunque manifestano la mancanza di nemici alla loro altezza. Nel meccanismo di una serie televisiva, che di fondo è un political thriller, la presenza delle figure speculari è necessaria proprio per mantenere alta la tensione. Lo stesso presidente, che sulla carta è il responsabile della mancata scelta, è una figura un po’ opaca e senza fascino.

 

Eppure, nonostante quest’assenza che ogni tanto si senta (l’uomo d’affari Tusk non funziona del tutto come avversario romanzesco), la tensione resta alta per una serie di fattori fondamentali: la funzione omodiegetica di Frank che si rivolge direttamente allo spettatore illustrando le proprie mosse, deridendo o lamentandosi di chi gli ostacola il percorso, commentando sardonico e cinico; la volontà di vedere quanto possa farla franca Frank malgrado abbia tanti sostenitori (lo staff, i gregari del partito, le aziende amiche, una giornalista) quanti oppositori (molti settori del partito, le grandi lobby, alcuni giornali); i due protagonisti.

 

Frank (un Kevin Spacey memorabile) non è tanto l’incarnazione del male tout court, ma del motto andreottiano del “perpetrare il male per ottenere il bene” in cui il conseguimento del bene personale (il potere) è talmente prevalente da convincersi che coincida col bene della nazione. Personaggio complesso di umili origini e con eterna voglia di rivalsa, sessualmente in equilibrio nella sua ambiguità, dominato dal lato oscuro della forza, ha sposato Claire (una spettacolare Robin Wright), alto borghese e socialité, che l’ama d’un amore incondizionato e terribile nella sua perversa diabolicità.

 

Sono loro, machiavellici e mefistofelici, i motivi principali della visione seriale, al di là dei colpi di scena, dell’appassionante struttura narrativa e della confezione magnifica (la fotografia livida di Eigil Bryld, Tim Ives e Igor Martinovic; il tema musicale incessante di Jeff Beal). Detto ciò, ormai avvezzi alla meravigliosa mostruosità di Frank, alzi la mano chi non è rimasto scioccato dal destino del deputato Peter Russo (un sofferto Corey Stoll) e, peggio mi sento, chi non ha sudato freddo all’inizio della seconda stagione (ecco un altro elemento singolare: il grande colpo di teatro non chiude la prima stagione ma apre la seconda). Ogni tanto ci penso e tremo.

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