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Black Mirror

6 stagioni - 27 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 4

  • 2017-2017
  • 6 episodi

L'autore

Eric Draven

Eric Draven

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Black Mirror

di Eric Draven
7 stelle

Black Mirror, quarta stagione: USS Callister

 

Ebbene, oramai la Black Mirror mania sta spopolando anche da noi e questa serie antologica, composta da micro-film, ovvero mediometraggi non “concatenati” ed episodici ma dotati di una chiara, compiuta propria autonomia, potremmo dire auto-conclusivi, in cui in ogni “film” si racconta una storia a sé stante, con un preciso inizia e una fine, è oramai parte del patrimonio cinefilo di ogni sofisticato amante di vicende surreali eppur così tremendamente reali, perché in Black Mirror, come sappiamo, si “narrano” e sviluppano tematiche che hanno il comune denominatore della tecnologia moderna e di come essa, anche involontariamente, stia influenzando così tanto la nostra vita di tutti i giorni che non possiamo distinguere più ciò che è vero da ciò per cui questo progresso allucinato e velocissimo, condizionandoci, ci sta plagiando nella sua eXistenZ, sì, perché Black Mirror, con tutte le sue molteplici variabili, col suo gioco raffinato di ambigui specchi filosofico-etici, è certamente apparentato alle cronenberghiane premonizioni futuristiche sulle quali il maestro della nuova carne da sempre, in maniera squisita e melliflua, ci ha messo in guardia.

Ecco che la nuova stagione parte infatti in quinta, memore della lezione di Cronenberg, con questo spettacolare, divertente e inquietantissimo USS Callister.

Fin da subito, dalle vintage immagini grottesche e coloratamente mirabolanti e demodé, estrosamente veniamo immersi in un’avventura da “flotta spaziale” ai confini della realtà che strizza l’occhio in modo bizzarramente spassoso all'universo di Star Trek. Ecco un capitano senza macchia e senza paura con la sua “ciurma” di fedelissimi e veniamo catapultati nello spazio-tempo di Infinity, il gioco di realtà virtuale creato dal suo geniale, avanguardistico programmatore, lo stralunato, sfigatissimo Robert Daly, nerd capoccione direttore di un’azienda dei sogni più reali della vita “vera”. Vessato e bullizzato dai colleghi, Daly apparentemente sembra soltanto un genio tanto bravo con la “matematica” dell’informatica quanto imbranato e fuori posto nel mondo quotidiano, ove è lo zimbello di chiunque. Arriva una nuova segretaria che però si complimenta con lui per aver reso possibile ciò che prima era soltanto una fantasia che pareva irrealizzabile. Forse la ragazza è infatuata del nostro “sfortunato” eroe. Ma non sa tutta la verità. Sì, Daly non è il buono che sembra, e infatti è interpretato da Jesse Plemons, l’incarnazione vivente dell’informant Matt Damon, la sua versione enigmatica e cattiva, sinistra e oscuramente misteriosa. Daly non ha solo creato questo videogioco straordinario ma ha per lui stesso realizzato una versione assolutamente personale in cui, rubando e usando il DNA della gente che lavora con lui, ha riprodotto “in scala” un mondo fiabescamente spettrale in cui lui è il capitano di una navicella spaziale e i colleghi che gli stanno antipatici sono i suoi servilissimi “prodi”, ai servigi del suo Dio punitore, temibile e spietatissimo. E, se qualcuno osa ribellarsi al suo titanico, spaventoso potere, lui li tortura e infligge loro pene durissime. Insomma, Daly fa sì che attraverso questo gioco possa violentemente rivalersi delle umiliazioni che nel mondo reale subisce ininterrottamente. Anche la segretaria diviene dunque sua “schiava” ma sarà lei a opporre subito resistenza, a incitare e a convincere gli altri a detronizzare il “mostro”. Da qui USS Callister diventa una puntata piena di trovate, corroborata della più incantevole inventiva.

Ancora una volta, una storia che ci porta a riflettere. Perché Daly, alla fine, verrà soffocato e “morirà”, la sua cattiveria sarà vendicata nella maniera più perfida. E rimarrà per sempre imprigionato dalla sua stessa aberrante genialità. Perché si è spinto oltre, perché ha azzardato troppo, perché ha superato i limiti proprio dell’umanità... in senso anche lato e metaforico.

Daly è spaventevolmente uno di noi o forse il babau all’apparenza insospettabile dei nostri incubi peggiori, la doppia personalità da Dottor Jekyll e Mister Hyde, un Frankenstein della giostra degli orrori pronto a tutto pur di sfuggire a un mondo che tanto gli ha dato onori e gloria per la sua elevata intelligenza quanto nel concreto è poco adatto alle sue limitatezze caratteriali, alla sua patetica fallacità, un mondo in cui è allo stesso padrone e re quanto burattino nelle mani di chi deride la sua imbranataggine.

Insomma, la morale è facile, non c’è bisogno che ve la spieghi... siamo tutti pedine delle nostre anormalità sotto la veste della più anonima, ridicola, orripilante “maschera”... siamo tanto i creatori delle nostre illusorie, fantasticate gioie, quanto gli artefici al contempo delle nostre umane deformità, delle nostre oscene malvagità, delle nostre abiette piccinerie.

 

 

Arkangel

 

Eh sì, Black Mirror, nella sua asciutta nitidezza formale, nella sua concisa sinteticità, nel suo affastellar temi sociologici mischiati alle nuove rivoluzioni tecnologiche, nel suo portare alle estreme conseguenze i “risvolti”, anche atroci e ferinamente inquietanti, della modernità, sta sempre più attecchendo nella mente degli spettatori, creando una sorta di prolungamento avveniristico delle nostre emozioni “virtuali”, e noi stessi ce ne plagiamo ed effondiamo, esplorando le parti oscure del nostro umano progredire laddove il futuro si prospetta tanto radioso quanto allarmante, sinistramente minaccioso.

Stavolta è il turno di Arkangel, episodio già sulla bocca di tutti perché è firmato dal due volte premio Oscar Jodie Foster. Un’attrice sempre impegnata nel sociale e ci accorgiamo, se andremo a scorgere nella sua filmografia “registica”, di come sia stata sempre affascinata dal tema della maternità e del difficile compito educativo genitoriale.

Fin da subito, veniamo immersi nell’atmosfera spaventosamente asettica dell’impianto scenico. Ecco una madre in sala parto, ci sono delle complicazioni, ma poi tutto si risolve ed esce una bella bambina. La madre però, vedendo gli infermieri accalcarsi attorno al feto, non mostrandole l’appena nascitura, si preoccupa e grida allucinata, domandando ad alta voce ai medici se la bambina è “normale”. Viene presto rassicurata e finalmente stringe la sua creatura fra le braccia.

Ma già da questi dettagli possiamo intuire l’eccessiva “apprensività” di una madre morbosamente legata al sangue del suo sangue. Non ci viene detto da chi abbia avuto la bambina e non lo sapremo fino alla fine, sappiamo solo che questa donna vive col padre, molto anziano, che poi morirà, che ha una bella casa ed è ossessionata dalla figlia, di nome Sara.

Al che, si rivolge a degli specialisti nel campo della sperimentazione, che installano alla bambina di soli tre anni un microchip comunicante con un tablet, che la madre in qualsiasi momento può visionare, che trasmette “in diretta” lo spazio visivo, oculare della figlia e attraverso il quale la madre, monitorando ciò che vede la pargoletta, può addirittura applicare una specie di filtro che censura e annebbia le immagini, pericolose o violente, della vita reale di tutti i giorni che potrebbero generare nella figlia stessa ansia o turbamento.

Comprendiamo, noi spettatori, fin dapprincipio, quanto nelle ragioni di questo smodato “controllo” vi sia qualcosa di morbosamente distorto nella relazione fra la madre e la giovanissima figlia. La madre non si staccherà da questo strumento per molto tempo, poi deciderà di lasciar stare, ma solo momentaneamente. Poiché, come umanamente accade, la figlia crescerà e comincerà inevitabilmente a fare le prime esperienze, anche sessuali. È allora che la madre s’insospettirà, le sue preoccupazioni aumenteranno a dismisura e si rivolgerà nuovamente ad Arkangel... con conseguenze nefaste...

Al solito, un episodio su quanto la tecnologia possa influire sulle relazioni umane. E il quadro che ne sortisce è quello di una madre malata, patologicamente maniacale nello spiare le azioni della figlia, assillata in maniera esasperante dal suo ruolo materno, la quale pare che per tutto il tempo sia presa soltanto da un’insistente domanda che, in agghiacciante silenzio, rivolge continuamente al suo cuore: sono una brava madre, un’educatrice corretta? E più si espanderà quest’ossessività riguardo il suo ruolo di madre che vuol essere perfettamente “giusta” più la sua apprensività sfocerà nella paranoia, nell’isteria.

Ma concentriamoci sul concetto di apprensività. È una parola che nel vocabolario non esiste ma che viene spesso usata in ambito psichiatrico per riassumere, in senso comportamentale e psicologico, tutta quella serie di irrazionali atteggiamenti e ingiustificate premure “messe in moto” per contrastare eventi temuti, effettuate soprattutto a livello inconscio per mettere a posto la propria coscienza e tranquillizzarla. E che in particolar modo è tipica di persone insicure che, nella loro ingenua volontà di far del bene alle persone loro care, non si rendono invece conto di arginarne il libero arbitrio, minando le autonome, inviolabili emancipazioni personali.

E in questo risiede la criticità del personaggio interpretato dalla “calcolatrice” Rosemarie DeWitt che, nei suoi eccessi, è lapalissianamente un esempio calzante di quel genere, potremmo dire, di genitore... “mostruosamente” legato di “cordone ombelicale” inscindibile ai figli o alla figlia, come in questo caso.

Arkangel è un episodio forse non particolarmente innovativo e abbastanza prevedibile nei suoi sviluppi narrativi che però fa riflettere e pone interrogativi non del tutto banali, come invece potrebbe sembrare a una prima visione.

 

 

Crocodile

 

Ebbene, stavolta recensirò per voi quello che è stato definito l’“episodio” più brutto di tutte le stagioni di Black Mirror, ovvero Crocodile. Permettetemi in parte di dissentire, ne spiegherò le ragioni.

Diretto dall’esperto John Hillcoat (The RoadLawlessCodice 999), è certamente irrisolto, non del tutto riuscito, abbastanza carente in materia di pathos e forse troppo sbrigativo, ma questi sono difetti tipici di questo genere di “produzioni” che, dovendo obbligatoriamente stare nel minutaggio di solo un’oretta, inevitabilmente peccano di superficialità e son costrette ad accelerare narrativamente, con snodi spesso troppo facili.

Subito, in un montaggio sincopato molto “ballerino”, in maniera, oserei dire, lisergica... veniamo catapultati nel caos di una disco-dance. Poi, i due protagonisti, un ragazzotto ben pasciuto e una ragazzina quasi anoressica, ritornano a casa a tutta velocità sul loro macchinone. Ancora sballati e ubriachi, investono involontariamente un passante in bicicletta e l’ammazzano sul colpo. Sconvolti, anziché chiamare la polizia e identificarsi come autori del “delitto”, ben consci delle orribili conseguenze a cui andrebbero incontro, liberi da sguardi indiscreti, essendo quel posto quasi abbandonato da Dio, raccolgono il cadavere dall’asfalto e lo gettano in un lago lì vicino. Maschereranno nelle loro colpevoli coscienze il misfatto per anni.

Quindi... salto temporale. Una donna, con marito e figli, fa una conferenza e viene celebrata come geniale, innovatrice architetta. È la stessa donna autrice dell’omicidio, adesso profondamente cambiata nel look, cresciuta e con una vita soddisfacente e ambiziosa. Nella sua stanza dell’albergo, fa capolino la sua vecchia conoscenza, il suo ex ragazzo... che le confida, mostrandole una foto di giornale, che la moglie di quell’uomo da loro ucciso tanti anni fa è viva, non si dà pace per la scomparsa del marito ed è disperata. E sta cercando ancora la verità... poiché non ha mai saputo perché fosse sparito nel nulla. In questa notte d’antichi complessi di colpa, di un glaciale passato tormentoso che riemerge in tutto il suo brutale, gelido orrore, accadrà ancora una volta qualcosa di macabro...

 

Intanto, un’agente assicurativa sta interrogando vari testimoni riguardo un banale incidente stradale. Sì, è stata sviluppata e messa a punto una tecnologia rivoluzionaria, il “rammentatore”, uno strumento che legge nei ricordi delle persone per rievocare “tangibilmente” ciò che è custodito negli anfratti “soggettivi” della memoria.

Questa è la prassi...

Quell’incidente stradale è stato fuggevolmente visto anche dalla nostra signora “morte”. E qui viene il bello, anzi, l’orrido... come avrete potuto facilmente intuire. Viene interrogata, le verità emergono, i suoi delitti non possono essere più nascosti e ci scappa un’altra morta. E via via la violenza esplode sanguinaria e incontrollabile. Sino al twist finale che ha dell’incredibile e che naturalmente non vi sveleremo per non rovinarvi la sorpresa.

Ecco, il tutto poteva essere indubbiamente svolto meglio, non ci convince la deragliante, repentina deriva omicida della protagonista, incarnata dalla magrissima e luciferina Andrea Riseborough, e la sceneggiatura di Charlie Brooker lascia molto a desiderare. Troppo meccanica, automatica la follia che viene ingenerata, esagerate le dinamiche assassine e la logica qui non combacia tanto con la verosimiglianza narrativa e con le cause-effetto della vicenda. Insomma, possibile che questa donna, all’apparenza normalissima, si sia trasformata in uno spietato mostro all’improvviso? No, forse a ben vedere, da quel giorno maledetto di quel cadavere buttato nelle acque, la sua psiche aveva già subito una sinistra deviazione celata proprio nei ricordi della sua bestialità arcanamente umana e probabilmente lei sempre mentito su questo “cambiamento” perfino a sé stessa, coprendosi d’una maschera sociale apparentemente perfetta quanto ambiguamente terrificante.

Quindi Crocodile è proprio brutto? Sì, in parte lo è, e non emoziona neppure molto, non avvince nella trama e nei suoi sviluppi, ma almeno vince sul piano dell’ambientazione e dell’eleganza formale delle immagini, immergendoci in una cupa Islanda spettrale da noir polizieschi da Jo Nesbø, e alla fin fine si fa apprezzare per il taglio prospettico delle freddissime inquadrature, per l’interpretazione distaccata e agghiacciante della Riseborough e ci ha fatto sorridere onestamente per il finale tanto grottesco quanto inaspettato e al solito cinicamente crudele in puro stile Black Mirror.

Una simpatica sciocchezza, insomma, pretendiamo certo di meglio, ma Crocodile non è così disprezzabile come si è letto in giro. Soprattutto se siete amanti di tetre location e dei panorami aridamente gelati e umanamente raggelanti.

 

 

Hang the DJ

 

Ebbene, recensiamo quello che da molti è stato definito l’episodio certamente più riuscito di questa quarta stagione.

Immagini suadenti, una musica melodiosa e veniamo immersi in una sala convention. Almeno così sembra, perché invero è un lussuoso ristorante ove il cuore solitario del giovanissimo Frank sta aspettando una donna. Gli è stato fissato infatti un appuntamento. Sì, non è stato lui a decidere chi incontrare, non è stata la sua solitudine desiderosa di una relazione sentimentale a imbattersi, che ne so, attraverso siti d’incontri virtuali, in una persona che ha potuto “opzionare”, in cui proiettare il suo oggetto del desiderio, bensì il Sistema, un software sofisticatissimo che “recapita” alle anime bisognose d’amore la persona ideale sulla base di un semplice algoritmo che, misurando i nostri comportamenti, il nostro carattere, le nostre peculiarità emotive, le nostre genetiche sensibilità, ha affidato a un programma “specialissimo” il compito di selezionare le coppie. Al che, l’impacciato Farnk incontra Amy. Entrambi sono alla loro prima esperienza, prima d’allora non avevano mai sfruttato questa “app” molto particolare. Il Sistema ha inoltre deciso che il loro sarà un breve incontro, fuggevole, della durata di soltanto dodici ore. Non riusciranno a consumare e saranno preda delle loro goffaggini e timidezze ma noi spettatori capiamo subito che fra i due è scattato qualcosa di magico, la classica scintilla, è esplosa l’elettrizzante chimica dell’attrazione fatale. Ma, volenti o nolenti, sono costretti a lasciarsi malinconicamente. Sì, perché loro non hanno facoltà di scegliere chi vogliono come compagno della vita, è il Sistema che, in modo arbitrario e quasi autoritario, impone le scelte d’amore o presunte tali. Così, assistiamo in parallelo all’avvicendarsi di altri incontri, della durata più o meno variabile, in cui tutti e due, come d’altronde tutti coloro che abbiano deciso di vivere in questo Sistema, distopico e apparentemente idilliaco, pare che sottostiano in maniera remissiva alle discutibili regole del gioco. E vengono praticamente obbligati a fare sesso e frequentare, per quell’arco di tempo stabilito, persone che semmai ritengono insopportabili, decisamente non affini o agli antipodi rispetto al loro modo d’essere. Ma solo così il Sistema può, in base appunto alle loro reazioni, agli attriti che ne sortiscono, alle dinamiche emotive che s’innescano, decretare chi potrà essere definitivamente la loro anima gemella. Un purgatorio terrestre in cui gli abitanti del Sistema hanno abdicato persino benevolmente, senz’opporsi alla massacrante trappola psicologica, convinti che i loro sforzi saranno alla fine ripagati dalla giustezza di un mezzo pressoché infallibile.

Il Sistema li farà rincontrare e sarà ancora amore immortale. Però il Sistema nuovamente deve separarli... o forse no, perché i due innamorati si ribelleranno e altro non possiamo svelarvi. Come andrà a finire? Sfuggiranno dalla prigionia di una realtà solo in superficie linda e insindacabile che agisce tremendamente sulle loro anime unicamente per il loro “bene?”.

Lo sceneggiatore Charlie Brooker compie un prodigio di delicatezza e l’episodio è un mix irresistibile, fascinoso, appassionante di tenerezza romantica, di amor fou e angoscianti colpi di scena, scanditi con precisione narrativa tale da suscitare commozione ed empatia. Gettando comunque ancora una volta un’ombra inquietante su un futuro che assomiglia, per certi versi, mostruosamente al nostro presente, ove sembra che anche i sentimenti debbano rispondere a delle logiche “informatiche” e le emozioni par che siano cronometrate, regolamentate e schematicamente allineate secondo “programma”.

Regia del bravissimo Tim Van Patten e prova egregia, persino energica dei simpatici e coinvolgenti Georgina Campbell e Joe Cole.

 

 

Metalhead

 

Ebbene, eccoci giunti al penultimo “episodio” di quest’altalenante quarta stagione, Metalhead. Un episodio che ha fatto imbestialire molti che ne sono rimasti profondamente delusi. A me invece è piaciuto, e non poco. Ecco, in un futuro post-apocalittico non ben determinato, fotografato in un arido bianco e nero nitidissimo e cristallinamente mortifero, quasi funereo, tre persone, una donna e due uomini, uno giovane e uno di colore, penetrano in un magazzino per sottrarre del materiale “prezioso” e impossessarsi di uno scatolone. O meglio, a entrare nel covo sono la donna e il nero, il giovane ragazzo aspetta in macchina, fuori, a controllare che i suoi compagni possano agire indisturbati. Il nero viene “fregato” nella sua missione da un robot della sicurezza, che spietatamente lo ammazza, facendogli saltare la testa e disintegrandogliela, la donna in preda al panico fugge terrorizzata ma, anziché entrare nel furgone del suo “amico”, utilizza un altro veicolo. Il robot, indomitamente, fa fuori il ragazzo e guida il furgoncino, inseguendo la donna per le strade mal asfaltate e desolate. Da lì ha inizio una caccia allucinante e la donna tenterà disperatamente di salvar cara la pelle. Ma chi è questo robot? Spiegazioni non ci vengono fornite, intuiamo solamente che, in questa società alla Mad Max, dai panorami brulli, scarnamente spogli, probabilmente esistono questi automi killer a controllo di alcune zone.

Una discesa infernale nella paura, giocata sulla suspense, sulla corsa contro il tempo, scandita dai soliti colpi di scena, però ben congegnati, distillati con sapiente, giusta tensione e qualche attimo truculento ottimamente “dipanato” nei pur scarsi 41 minuti di durata. Ci sono soltanto tre attori, i due uomini vengono uccisi subito, rimane la sopravvissuta, una temeraria e magra Maxine Peake, volto scavato e occhi gelidamente agghiaccia(n)ti. Ma forse non si salverà neppure lei…

Scritto come sempre da Charlie Brooker e diretto da David Slade, si differenzia dalla maggior parte degli episodi di Black Mirror perché rinuncia proprio al “marchio di fabbrica” che ha reso unico questo prodotto antologico, in quanto stavolta, sì, il robot è una “specie” avanzata della tecnologia moderna e futuribile ma sono assenti i temi universali e metaforici che, appunto, ne sono stati lo stilema inconfondibile.

E molti si sono lamentati di questa scelta, di questo registro narrativo e, potremmo dire, diegetico.

È solo la storia di una survivor, con un nemico invincibile e infrangibile, ostinato e tremendo.

Insomma, se da Black Mirror vi aspettate sempre originalità e tematiche avanguardistiche che facciano riflettere, avete sbagliato episodio. Se vi accontentate di un episodio che vi terrà col fiato sospeso, facendovi tremare di raccapriccio, siete “capitati” nel posto giusto. Lugubre, cadaverico, esangue, come il viso emaciato e intagliato nella pietra della protagonista.

 


Black Museum

 

Ebbene, eccoci arrivati all’ultimo episodio di questa nostra cavalcata nella pirotecnica quarta stagione di Black Mirror. Spiazzante come sempre, imprevedibile, tortuosamente avvolgente, alle volte irrisolta, complessa, sfaccettata, diversificata, che ci ha offerto un altro panorama ampio sulle nostre ossessioni di uomini “moderni” immersi in una contemporaneità oscuramente sinistra, enigmaticamente spettrale. Perché la tecnologia, forse, ha migliorato le condizioni di vita di ognuno di noi ma ci ha aperto a strade tanto nuove, così sperimentalmente fascinose quanto mellifluamente glaciali. Ci siamo spinti troppo oltre? L’affamatissimo desiderio di onniscienza, le nostre manie di controllo hanno imboccato derive angoscianti, sconfinando in surreali, macabri incubi mostruosi?

Ecco allora che l’antologia stavolta si conclude con questo piacevolissimo, geniale, metaforico, spaventosamente grottesco Black Museum.

Una ragazza di colore solca le strade desertiche di un’America arida, poi si ferma a una stazione di benzina. Poco più distante, ecco una costruzione rustica, quasi western che sembra una tavola calda per camionisti. Invece, è un museo degli orrori. Al suo interno, infatti, ci sono manufatti e oggetti che appartengono a vissuti inquietanti, se non terrificanti, sono i reperti che testimoniano storie del passato inconfessabilmente ripugnanti. Storie però realmente accadute, adesso narrate alla nostra turista-“avventrice”, all’apparenza un po’ ingenua e avventata, da un tracagnotto “oste”, custode di questa sorta di “pinacoteca” ai confini della realtà.

Al che la trama si ramifica e l’episodio diventa una specie di matriosca narrativa, in cui in questo caso ci vengono raccontate più storie, per l’esattezza tre, tre storie interconnesse che fanno da sfondo a quella principale, a quella appunto della ragazza nel museo.

Si parte con la storia di un dottorino a cui viene installata una “protesi”, il quale, in diretta comunicazione sensoriale con persone che indossano un casco di elettrodi che captano le loro percezioni fisiche, entrerà in vivo contatto col dolore. Uno strumento che, dapprincipio, gli tornerà utilissimo per riuscire a diagnosticare i mali di cui sono afflitti i suoi pazienti, permettendogli di arrivare con anticipo a prognosi impensabili rispetto a una normale visita superficiale. Lui coglie le dolenze più imperscrutabili, che sfuggirebbero a chiunque, ne sente gli spasimi, visceralmente cattura le strazianti fitte.

Col tempo però questo strumento di dolore diverrà uno strumento addirittura di piacere. Più il dottore riuscirà a sentire il dolore delle persone accanto a lui, più ne godrà immensamente. E questa perversa fruizione del godimento lo aberrerà moralmente. Prima infierirà su sé stesso, maciullando il suo corpo pur di godere delle sue abominevoli ferite, quindi, in una devianza oltre il punto di non ritorno, si trasformerà in un brutale assassino...

Una storia raggelante, truculenta, orripilante, cinicamente allarmante riguardo i leciti confini verso cui può spingersi la sperimentazione.

La seconda storia... una giovane coppia interraziale vive felicissimamente la propria serena vita di coppia, poi lei viene investita e cade in coma irreversibile. Nessun problema... è stato messo a punto un “programma” in grado di trasferire la sua coscienza nella testa del compagno. Così, potranno sentirsi sempre vicini e comunicare di anime congiunte. Ma arriva l’inghippo, come tutte le invenzioni rivoluzionarie, anche questa ha le sue preoccupanti e tristissime complicazioni... effetti collaterali di una sconvolgente, apparente “armonia”. Eternamente “scimmiottata”, potremmo sarcasticamente, amaramente dire.

Infine, la terza storia, quella di un uomo morto sulla sedia elettrica che, prima di morire, per il “bene” della famiglia, ha donato la sua “anima” dell’aldilà a fini “scientifici”.

E quindi il consueto colpo di scena, che rimette tutto in discussione.

Un episodio esagerato, di un cinismo talmente parossistico da risultare estremamente godibile, talmente “paranormale” nei suoi risvolti che non si può che rimanerne sconcertati e scossi. Tutto è condotto alle estreme conseguenze e non si pretende serietà e verosimiglianza da Black Mirror.

Un degno finale, impudente, freddamente allucinatorio. Al solito cupissimamente profetico.

Quello che possiamo rimproverargli è un eccesso di didascalismo con pedanti spiegazioni esternate allo spettatore per fargli meglio comprendere ciò che era già comprensibile da sé.

 

 

 

 

 

 

di Stefano Falotico

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