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Oggi a Roma: Un giorno questo dolore ti sarà utile, il film made in Usa di Roberto Faenza
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Fuori Concorso al Festival di Roma si presenta oggi alle 19:30 all'Auditorium Santa Cecilia il primo progetto internazionale di Roberto Faenza: Un giorno questo dolore ti sarà utile, tratto dall'omonimo romanzo di Peter Cameron, edito in Italia da Adelphi.

 

Tra il documentario Silvio Forever e la fiction sul delitto di via Poma (in tv il prossimo 23 novembre), Roberto Faenza si è dedicato a quello che per sforzo produttivo è sicuramente il film più importante di un'intera carriera, lavorando al fianco di grossi nomi dello star system hollywoodiano, da Ellen Burstyn a Lucy Liu, scoprendo anche il giovane Toby Regbo a cui ha affidato il ruolo di questo novello Holden, con i suoi dolori e la sua crescita.

 

 

  

“Ho 17 anni e non amo molto parlare. Sono un anarchico, odio la guerra, la politica e la religione organizzata. I miei dicono che sono un asociale perché non voglio andare all’ università. Non ci voglio andare perché non voglio essere indottrinato. Mi bastano le idee che ho. Amo leggere e passare le giornate in campagna da mia nonna. Per questo sarei un disadattato?”

 

Un giorno questo dolore ti sarà utileè il ritratto umoristico e appassionato della New York di oggi, raccontato attraverso gli occhi del giovane James (Toby Regbo) e della sua squinternata famiglia.

La madre Marjorie (il premio Oscar® Marcia Gay Harden) ha una galleria d'arte dove espone bidoni della spazzatura. Colleziona mariti: ha appena abbandonato il terzo, Mr. Rogers (Stephen Lang, il Colonnello Quaritch di Avatar), un giocatore compulsivo, durante la luna di miele a Las Vegas. Il padre Paul (Peter Gallagher) esce solo con donne che potrebbero essergli figlie. Al contrario, la sorella Gillian (Deborah Ann Woll, protagonista di True Blood) ha una relazione con il suo professore di semiotica e non riesce a innamorarsi di uomini che non abbiano almeno il doppio della sua età. Intanto già prepara le sue memorie, sicura che saranno un best seller.

Solo Nanette (il premio Oscar® Ellen Burstyn), la nonna enigmatica e anticonformista, riesce a comprendere lo spaesamento di un diciassettenne inquieto alla ricerca dell’ identità, sullo sfondo di una New York ricca di personaggi sconcertanti.

La difficoltà di James nell’uniformarsi a una presunta “normalità”, lo porta a commettere gravi errori: entrare in una chat per cuori solitari e proporre un appuntamento al buio al direttore della galleria in cui lavora (l’afroamericano Gilbert Owuor). O ritrovarsi incastrato in una tragicomica gita scolastica per cervelli superdotati.

Anti-eroe irriverente e politicamente scorretto, James viene mandato in terapia da una life coach di origini cinesi (Lucy Liu), che pratica metodi decisamente non convenzionali. Dopo un’iniziale diffidenza, finalmente James comincia a rovistare nel suo io per allontanare il pericolo di sprecare inutilmente la propria intelligenza.

E finisce per porsi una domanda alla quale urge dare una risposta: “Se io sono un disadattato, allora gli altri cosa sono?”

 

 

Questa è la seconda volta che giro un film a New York. La prima è stata nel 1983, quando ho realizzato Copkiller con Harvey Keitel e il leader dei Sex Pistols Johnny Rotten. Una pellicola che nel tempo è diventata un piccolo "cult", specie nei paesi di lingua inglese. Da allora le cose sono molto cambiate e fare cinema a New York è diventato molto più difficile. A causa soprattutto delle union che si oppongono alle produzioni intenzionate a impiegare tecnici e maestranze stranieri, a differenza dei nostri sindacati, pronti ad accogliere le produzioni americane. Il tema della reciprocità dovrebbe essere una battaglia da ingaggiare, perché non è giusto che le loro produzioni possano far lavorare in Italia chiunque, dagli attori ai tecnici alle maestranze, mentre noi italiani o europei non possiamo far lavorare negli Stati Uniti quasi nessuno. Basti pensare che su una troupe di 105 persone abbiamo potuto impiegare solo due italiani e solo dopo una lunga trattativa. In una riunione di preparazione mi imbatto per la prima volta nella parola "clearance". Vi partecipa un team di avvocati esperti nel verificare tutto ciò che nella sceneggiatura possa essere oggetto di controversia o richieda specifiche liberatorie. Il team esamina con la lente di ingrandimento ogni riga della sceneggiatura e mette in guardia la produzione sui criteri da seguire. In pratica tutto ciò che compare anche in un solo fotogramma del film può essere oggetto di contestazione, specie in America dove gli avvocati sono più numerosi delle formiche e dove a volte si può diventare milionari intentando le cause più azzardate. Una vertenza singolare io stesso l'ho vinta quando nel 1970, insegnando al Federal City College di Washington D.C. e facendo parte dell'organizzazione del MayDay contro Nixon e la guerra in Vietnam, sono stato arrestato insieme a Jane Fonda, al famoso pediatra Benjamin Spock e a una ventina di leader della manifestazione. Rinchiusi nello stadio di Washington per tre giorni e tre notti, colpiti da gas lacrimogeni lanciati dagli elicotteri della polizia, una volta usciti e schedati come criminali abbiamo intentato una class action contro il governo americano perché arrestati senza aver commesso alcun reato, prima ancora di arrivare alla manifestazione davanti alla Casa Bianca. Abbiamo affidato la causa all'American Civil Liberties Union, formata da agguerriti legali impegnati nel sociale, e la causa è durata meno di un anno. Poco dopo il verdetto dei giudici, mi sono visto recapitare una busta del governo americano che chiedeva scusa per l'arresto illegittimo e allegava un assegno circolare di $24.000 per il danno subito. Un regalo fantastico che mai mi sarei aspettato. Devo ammettere che ogni volta che torno in America spero che mi arrestino di nuovo. 

Come è noto, la differenza tra il cinema che facciamo noi e quello che si fa negli Stati Uniti è abissale. Come si dice, là si usano i film per fare i soldi, da noi si usano i soldi per fare i film. I registi americani si trovano impegnati a ragionare in termini più pragmatici che ideali, in quanto nel loro paese il dio denaro è sovrano. Nessuno ha mai sentito parlare di contributi a film di interesse culturale o di premi di qualità. Le produzioni possono casomai, a volte, avvalersi di incentivi legati alle spese sostenute, a seconda degli Stati che li propongono per favorire le economie locali. Sembrerà strano che un regista invece di parlare di cose creative e similari si occupi soprattutto di questioni economiche e finanziarie, ma sei vuoi fare un film negli Stati Uniti non puoi farne a meno. Aveva ragione Orson Welles quando si lamentava di avere vissuto il 99% della sua vita "hustling" (a darsi da fare freneticamente) e solo l'1% a fare film, mentre avrebbe desiderato il contrario. A differenza di quanto succede in Italia, pochissimi registi hanno il final cut: l'ultima parola spetta a chi mette i soldi, siano essi gli studios o i private investor che giocano nel cinema come potrebbero giocare in borsa: aspettandosi dei profitti. Uno di loro a soli 26 anni ha già investito in una decina di film, incluso uno sul crollo di Wall Street. Quando gli dico che da noi i registi impiegano in media 8-10 settimane di riprese e alcuni anche di più, mi risponde che questa è la ragione per cui non investirà mai in Italia. Per gli investor il budget di un film viene valutato in rapporto a quanto realisticamente potrà incassare, e dunque le settimane di lavorazione vengono programmate di conseguenza. Tutto il resto viene lasciato ai sognatori. Non sono sicuro, però, che la statistica possa essere l'unica regola del cinema. Anche il sogno è un ingrediente essenziale. E a noi italiani conviene farne largo uso. Come dicevo, girare a New York è impresa parecchio ardua. Specie dopo l'11 settembre la città vive in paranoia e i permessi per girare sono centellinati. Al confronto, Los Angeles è un paradiso. Lì, tutto è reso più facile grazie a una popolazione abituata al cinema, la cui maggioranza vive proprio grazie a quell'industria. Ma i newyorkesi la vedono diversamente: secondo loro a Los Angeles prima ti dicono "welcome", ma appena ti giri aggiungono "fuck you". Mentre a New York prima ti dicono "fuck you", ma poi ti danno il benvenuto. E in effetti in occasione di questo film sono nate non solo delle belle collaborazioni tecniche e artistiche, ma anche delle bellissime amicizie.

Roberto Faenza


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