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Sbooom, il rumore del mondo
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Dev’essere mattina presto. Sembra quella la luce che filtra attraverso le tende tirate di una stanza da letto, in cui si indovina la silhouette di una persona addormentata o almeno immobile. Quella luce che precede di qualche mezz’ora l’alba, quando ancora il sole non è visibile all’occhio ma basterebbe spostarsi di qualche chilometro verso est per esserne sicuri: un nuovo giorno inizierà presto. Anche perché, sebbene ovattati dalle finestre chiuse, giungono alle nostre orecchie di spettatori i rumori di fondo di una città che non dorme del tutto, o che si sta risvegliando.

L’inquadratura è ferma, paziente, potremmo iniziare a pensare che stiamo guardando una immagine fissa, una foto. L'occhio ha il tempo di tornare sui contorni della silhouette alla ricerca di un eventuale movimento, l’udito è tutto teso a percepire qualsiasi variazione nel sonoro, le ipotesi cominciano ad affastellarsi nella men… Sboooom. Il boato è così perfettamente sonorizzato e ben modulato su una frequenza interiore che ferma la mente, pietrifica lo stomaco, inchioda i polmoni a metà di un respiro.

Dopo qualche momento di paralisi anche la silhouette sullo schermo prende vita, si scuote, sussulta. Evidentemente anche la sua mente si è bloccata a metà di un sogno, anche il suo stomaco dev’essersi contratto, il suo respiro fermato. Da quel momento quel rumore, IL rumore, diventa il centro di tutto. Una volta che lo abbiamo sentito, noi e la protagonista del film (Tilda Swinton in Memoria, nelle sale italiane, davvero poche), siamo improvvisamente diventati fratelli.

E non importa se le cose avvengono su piani diversi che, seguendo le rigide regole della fisica, non dovrebbero incontrarsi. Non importa cosa sia film e cosa sia realtà, non importa se siamo separati dal tempo, dallo spazio o da entrambe le dimensioni da cui il nostro mondo appare regolato, perché quel boato è come un macigno che piomba dallo spazio direttamente nelle viscere della terra senza passare per la crosta terrestre.

Non importa se la storia sullo schermo si svolge a Bogotà e noi siamo su una poltroncina di un cinema di Milano. Quel boato è il rumore del mondo e la ricerca della sua origine unisce spettatori e protagonista ad un livello superiore. E che questo legame sia metafisico o molecolare è irrilevante. È andata così, abbiamo una sorella. E vive in un film di Apichatpong Weerasethakul.

C'è una cosa che mi capita ogni tanto con alcuni libri: sentire il bisogno di fermare la lettura. Leggo una cosa che mi attorciglia la mente, che mi scatena troppi pensieri collaterali e quindi devo fermarmi. Poggio il libro aperto sul petto, lo sguardo puntato verso l'alto, al soffitto o al cielo, e cerco di catturare il pensiero laterale. Non per intrappolarlo ma per dargli altro nutrimento, per gettargli eventualmente dell'altra benzina addosso, per infuocarlo e farlo partire per la tangente. È un modo come un altro per non dimenticarlo, per salvarlo, per farlo diventare, infine, davvero mio.

Nel libro che sto leggendo in questi giorni questa cosa succede molto spesso, mi fermo e dò fuoco ad un pensiero. Per questo non può sfuggirmi la sensazione che io e la protagonista di Memoria siamo fratello e sorella nello stesso modo in cui il padre e la madre di Claudia Durastanti nel romanzo autobiografico La straniera, erano marito e moglie, e poi padre e madre, ancora prima di conoscersi. Uniti da una fitta rete di connessioni non fisiche. Uniti da una menomazione, sordi entrambi. Uniti da un rifiuto, per la lingua dei segni. Uniti da un atteggiamento sprezzante, anarchico, nei confronti della loro condizione. Uniti come lo sono gli alberi, che, secondo la teoria dell’ecologista Suzanne Simard, sono in grado di costruire un sistema cooperativo parlando tra loro, scambiandosi nutrimento, rilasciando determinate sostanze se minacciati. Come in caso di incendio quando usano i mycorrhizae, funghi che crescono nel sottosuolo, tra le radici degli alberi, perché trasmettano sostanze vitali attraverso una fitta rete neuronale in modo che le piante più a rischio possano andare avanti.

Così per Claudia Durastanti i suoi genitori sono riusciti a proteggersi a vicenda, ad affrontare il mondo a distanza, alimentandosi e venendosi in soccorso di fronte ad una minaccia, prima ancora di conoscersi. Uniti da una disabilità, la sordità, ma capaci di identificare e seguire un altro rumore, un altro pulsare, più intimo e al tempo stesso più universale. Metafisico, se non molecolare.

Così il me spettatore di Memoria e il me lettore di La straniera si saldano in un'unica esperienza. Con la differenza che il film non si lascia fermare. Uniti dalla ricerca, dal bisogno di comprendere l'origine di quello sboom, profondo e ancestrale, interno e spaziale, seguo la protagonista di Memoria nel suo viaggio.

Sono con lei quando incontra un tecnico del suono insieme al quale cerca di dare una forma a quel rumore descrivendolo con poche parole precise come se fossero intagliate con un bisturi nella corteccia di un albero millenario. Sono con lei quando, lavorando insieme al tecnico sulla rappresentazione visiva di quel suono con il cesello del digitale, smussandone alcune curve per farlo più rotondo, quel suono diventa replicabile a comando, quindi reale. Sono con lei quando il suono invece arriva non provocato artificialmente durante una cena con la sorella e la lascia, sboom, tramortita e senza fiato. Sono con lei quando facendosi condurre dalle tracce del destino arriva ai margini della foresta vicino alla capitale colombiana, dove una specie di sciamano la porta ai margini di una possibile risposta. Sono con lei fino alla fine, quando vorrei che il film non finisse.

Claudia Durastanti, in un passaggio del suo libro, racconta di quando ha vissuto "il privilegio dell’immedesimazione fisica con la madre", nel senso che per qualche istante è stato come essere nel suo corpo. Si trovava al Guggenheim di New York nella camera semianecoica (che si avvicina alle condizioni del silenzio perfetto) dell’artista Doug Wheeler. "Quando sono entrata" dice "ho sentito il mio passato e, per la prima volta, mi sono identificata perfettamente con mia madre. Ed è stata una sensazione vertiginosa. Ho provato lo stesso disorientamento con cui i miei genitori stanno al mondo"

Ecco. La visione di Memoria è stata esattamente così. È stato come trovarsi in una stanza anecoica e improvvisamente sentire, per la prima volta, non solo i rumori che produce il nostro corpo per il semplice fatto di essere in vita, ma il rumore che fa il mondo.
Sboooom.

PS: Memoria ha vinto il Premio della giuria (ex aequo) al Festival di Cannes 2021 e sebbene abbia una distribuzione in partenza molto risicata (solo 8 sale al momento) è uno di quei film che andrebbe sostenuto proprio nella sua visione in sala. Detto questo, se non ce la fate perchè la sala più vicina è comunque troppo lontana per voi, sappiate che dai primi di agosto sarà disponibile anche su MUBI.

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