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TFF33, Incontri ravvicinati di tipo cinematografico
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Che il TFF sia soprattutto un festival rivolto alle nuove tendenze del cinema, alla scoperta e al lancio di autori e di talenti, è quel dato di fatto che rinforza quell’effervescenza cinefila che alimenta le opinioni, gli scambi, le impressioni di appassionati di ogni genere, che in una settimana si ritrovano in quella che ormai viene definita come la festa del pubblico. Lontani dai rituali del grande e ricco cinema, è un qualcosa nell’aria che lo differenzia, per onestà intellettuale, per indipendenza, per radicalità delle scelte. Allora si vorrebbe collezionare da ogni edizione un ricordo, un’immagine condensata in un titolo che renda ancora più indimenticabile una parentesi felice, quella di un film che dura sette, otto giorni. Non necessariamente in concorso, misteriosamente nascosto come un alieno nelle varie sezioni alla ricerca di quel film la cui immagine trascinerà tutto il resto, perché l’emozione con cui lo si racconterà contenga anche quello che si è vissuto insieme.

 

scena

A Morning Light (2015): scena

  A morning light (Ian Clark,Usa 2015).Film atipico ma fin troppo chiaro nella sua struttura anti narrativa che lo confina  nel territorio della video arte che non in quello del cinema. Due giovani campeggiatori piantano la tenda in un bosco dove l’ambiente apparentemente tranquillo si fa sempre più minaccioso grazie al succedersi di micro eventi inspiegabili. Molto vicino allo stile di Josephine Decker, la video maker americana proposta a Torino lo scorso anno, Clark propone lo stesso assetto formale, storia inesistente se non nascosta tra le intenzioni registiche, linguaggio scarno ed essenziale, movimenti di macchina e di ripresa tesi alla ridefinizione dello spazio circostante come se scoprisse la realtà per la prima volta grazie all’autoriflessione, alla contemplazione gestuale, ad una meditazione del tutto teorica sul ruolo inflazionato dell’immagine dei nostri tempi. Se però questo percorso non si fa strada con un modello rappresentativo chiaro,  se non che per poche intense brevissime sequenze, rischia di non differenziarsi  da una ripresa troppo vicina all’amatoriale, la percezione collettiva non viene intaccata, il flusso delle immagini non rilascia energia positiva verso lo spettatore incuriosito, ma emergono di più la banalità e lo sconcerto.  Clark spinge verso una dissonanza tra la tranquilla pace apparente della natura e un’impressione di minaccia incombente che vive il suo protagonista più preoccupato di mostrarla che di trovarne conferma attraverso qualcosa di concreto. Il duello tra esistente e non, resta bilanciato fino al termine, ma quelle che sono le sue capacità illusorie e manipolatrici attraverso l’immagine reale o più astratta restano  troppo lontane dalla sensibilità dello spettatore, costretto quasi a guardarsi indietro che non a misurarsi con un ipotetico prodotto d’avanguardia .   voto**12

 

Aharon Traitel

Tikkun (2015): Aharon Traitel

Tikkun (Avishai Sivan, Israele2015). Haim Aaron muore banalmente sbattendo la testa nella vasca da bagno dopo essersi sbalordito di fronte alla sua erezione. Ritorna a vivere dopo un massaggio cardiaco tardivo e la sua nuova vita sarà completamente diversa da prima. Il registro linguistico di Tikkun è senza dubbio quello vicino all’autoriale europeo con qualche sostanziale differenza. Innanzi tutto il film si lega ancora ad un concetto di cinematografia nazionale che sente il bisogno di portare alla luce quella realtà locale che altrove è di fatto dissolta in favore di aspetti e di relazioni complesse ed allargate  che se da una parte contribuiscono ad arricchire i contenuti dall’altra cancellano inesorabilmente le origini e la natura stessa di determinati modi di relazionarsi attraverso specifici parametri religiosi e culturali. Haim Aaron è un giovane appartenente alla comunità chassidica ultra tradizionalista e ne segue gli insegnamenti.  Il suo comportamento dissociato sarà fonte di riflessione e di confronto con quel mondo chiuso simbolizzato dal tormento del padre del giovane. Con un tocco tra il drammatico e il grottesco e surreale (elementi questi ultimi che l’autorialità recente non frequenta mai abbastanza) il regista mette in relazione problematiche del corpo e dello spirito, libertà e costrizione, educazione e rifiuto delle regole sociali, attraverso lo stralunato protagonista la cui presenza nonostante i dialoghi centellinati e una predominante mancanza di altri suoni emana una  notevole forza che mette a disagio. Tikkun che si riallaccia ad altre pellicole sullo stesso sfondo sociale (un titolo su tutti, La  sposa promessa 2012) dimostra tutto il suo valore esplicativo per rendere visibile dal di dentro quel tipo di realtà e sperando che il film abbia un buon riscontro di pubblico e di critica (questo almeno all’estero non è mancato) potrebbe contribuire anche a quella funzione culturale  che il cinema si è prefissato in determinati momenti della sua storia. Cioè teso non solo a rappresentare al meglio il reale ma a produrre uno strumento di trasformazione della realtà stessa. Voto ***12

 

Cline Bonnier, Louis Negin

The Forbidden Room (2015): Cline Bonnier, Louis Negin

The forbidden room (Guy Maddin, Evan Johnson, Canada 2015). Eccolo il film che scardina le convenzioni, che fa compiere un salto in avanti, nel buio della sala e della realtà rischiarate da una combinazione di colori ad  effetto, sequenze pittoriche che sono fotografie, didascalie e sovrapposizioni  scritte che da semplici informazioni diventano poesia chimica.  Mistico, erotico, surreale, il film è un’esibizione distorta di quello che può essere sintetizzato come uno dei più accattivanti e sontuosi tributi al cinema, in particolare rifacendosi al muto e all’espressionismo degli anni 20. Il duo Maddin e Johnson realizzano una rivisitazione psichedelica dell’evoluzione dell’immagine e grazie alle loro grandi capacità manipolatorie ed una tecnologia al loro completo servizio con The forbidden room riescono a fare intravedere qualcosa che sarà ma che inevitabilmente non può che prendersi in carico quello che già ha composto la materia dei sogni, il cinema del passato e delle origini. La storia ancora una volta è pretestuosa ed inconsistente, dentro un sottomarino che non riesce a risalire in superficie irrompe un taglialegna e dal suo racconto si sviluppano in continui e frenetici frammenti nuove storie che a loro volta sono destinate a moltiplicarsi. Il film dunque dimostra cosa il mezzo può ancora offrire, una possibile sua destinazione e interrogativamente chiede come questo tipo di visione sia collocabile nei confronti di un pubblico sensibile. The forbidden room sintetizza cinema classico e post moderno, video clip, pubblicità e sperimentazione d’artista, incastra in poco più di due ore (intense e coinvolgenti ma non per tutta la durata che forse poteva anche essere sensibilmente ridotta) un vero e proprio manifesto didattico dell’immagine con sovrapposizioni deformanti, primi piani e sfocature piene di follia, saturazione visiva e divertimento. In un momento in cui il cinema non dimostra una direzione univoca e in cui i grandi autori lanciano il grido d’allarme verso l’appiattimento e l’omologazione , The forbidden room invita a credere invece nell’instabilità, a prendere coraggio a piene mani e lanciarsi in nome della settima arte. Greenaway, per fare un esempio di autore attuale e contemporaneamente revisionista,  fa un discorso che non può prescindere dalla cultura e dalle arti in genere, qui invece i due registi si riappropriano di quei concetti del cinema delle attrazioni che dopo un secolo e mezzo è arrivato ad essere quel post moderno citazionista, ironico, intertestuale e contaminato dal quale voler  recedere significherebbe morire. Per me, indimenticabile, l’alieno del TFF 33 è questo.  Voto****

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