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Méditation: "L'homme armé doibt on doubter"
di Lehava
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Lehava

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Sono seduta, oramai da quasi due ore, su questa panchina. Quelle note che mi risuonano in testa. In una splendida, inaspettata, giornata di sole. Di luce inebriante, di tepore estivo, di colori brillanti, di sussurri e gorgoglii, di profumo d'acqua e terra. Il fiume, davanti a me, si getta quieto ed inesorabile nel mare. Come ha fatto da tanto, come farà domani, e a venire. In un mutamento talmente lento da sembrare statico. In un orizzonte lontano dove gli azzurri si confondono alla vista. Pur essendo netti nella sostanza. Il dilatare degli attimi, da ozio si è trasformato in riflessione. Sulla evidenza della convenienza, certo. Ma anche sulla fuggevolezza della logica. Perchè il tempo è un mistero, racchiuso nel nostro cuore. Un dono meraviglioso, insito nella vita. E nella morte. Non ci è dato afferrarlo, ma ci è chiesto di cercarlo. Temendolo, sempre.

 

1 Per ogni cosa c’è il suo momento,

il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole (Qo 3,1)

2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per gemere e un tempo per ballare.

5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace (Qo 3,2-8).

 

Le persone mi scorrono davanti come le onde. Mille volti, infinite storie, tutte diverse, eppure in fondo, eguali. Nasciamo, agiamo pensiamo e proviamo, muoriamo. Sotto il sole, qui, ora. Non nell'eternità, non nell'immortalità della nostra anima, ma nella caducità (chissà mai temporanea) dei nostri corpi. C'è una stagione per ogni cosa, ogni cosa ha il suo tempo. Continuo a ripetermelo, scrutando nel vuoto davanti a me, carico di immagini, nella testa sempre quell'arrangiamento a canone.

Dunque Orazio aveva torto, con quel suo "carpe diem". Ecco, lo sospettavo, maledizione! Così me ne stò tranquilla e silenziosa, su questa panchina: davanti l'acqua, attorno la città che vive. Potrei alzarmi, e passeggiare fino agli Albert's Docks. Non sarebbe sbagliato, non l'azione in sé. Ma lo sarebbe per me, adesso. Non ne comprendo il motivo, ma lo so. E mi coccolo nella consapevolezza che altrove, qualcuno, certamente ne afferra per me la logica. Come qualcuno, altrove, in altre stagioni, scrisse quelle note, chiare ed ineluttabili. Che ora, adattate, io leggo, cercando in esse una consonanza con il mio spirito.

 

Si possono commettere errori. Oppure si può essere corretti. Ma cadere in fallo, nei momenti. Ed esserne in qualche modo coscienti. Perché il tempo è un mistero al nostro cuore, eppure ne scandisce i battiti. Spasmi involontari (e pertanto incontrollabili) ma inequivocabilmente percettibili. Mi chiedo spesso se, in definitiva, non sia questo lo sbaglio più tragico. Credo di sì. Non solo tragico, ma irrimediabile. Perchè la vita umana è una linea retta, compresa fra due punti: inizio e fine. E non mi chiederò, non qui, non adesso, che significato universale abbia il tutto. Non me lo chiederò, perchè non ne avrebbe senso: conservo la risposta in me, come ognuno forse si tiene la propria. Ma certo, continuo a ragionare sulla appropriatezza delle stagioni. Sulla angoscia che prende quando esse non coincideno con la volontà, di pensiero ed azione. Ed allora nasce il dubbio. Perchè la scelta, di per sé stessa, contempla il dubbio. Sia esso recondito o palesato.

 

La morte arriva, inesorabile. Ha il volto bianchissimo ed abiti neri.

Conclusione implacabile e fruitrice ultima del nostro percorso attraverso la vita. Antonius non è pronto, ad accoglierla: "c'è un tempo per nascere ed uno per morire", e quel giorno, sulla spiaggia desolata, non è il suo giorno giusto per morire. "Sono pronto nello spirito, non nel corpo" si giustifica, forse mentendo. Ma non è solo orgogliosa volontà, la sua. Di sfidare il mistero del tempo. E' in qualche modo inconsapevole comprensione della verità: non è quello il suo momento. Ed infatti la morte, per gioco o per scherno, gli concede un'ultima partita a scacchi. Non è la vita in palio: Antonius conosce il suo destino, che è poi quello di tutti noi.

No, non è la vita in palio, bensì un respiro, uno solo, in più. Il cavaliere sa di avere ancora qualcosa da fare. Sebbene non sappia esattamente cosa.

 

Accompagnato dal proprio scudiero, si aggira dunque in un tempo mitico che è Medioevo ma potrebbe essere presente. Dove si muovono persone, a guardarle bene caratteri, archetipi, pedine e cavalli, torri e regine: il popolo ignorante, il capro espiatorio, il predicatore invasato, i lussuriosi (di dolore, soprattutto), l'approfittatore, lo sciocco e l'ingannatrice, il superbo con la verità sempre in tasca. Ma soprattutto: i puri di cuore, esemplificazione evidente della sacra famiglia, su cui si eleva una splendida Mia: dolce e forte, tenera e tenace, ingenua e consapevole. C'è in loro una accettazione gioiosa, e pertanto sommamente rispettosa e deferente del divino, del mistero del tempo e dei doni della terra e del cielo: si svegliano alla luce del sole, mettono impegno nel proprio lavoro (seppur misero), raccolgono i frutti (fragole e latte) che vengono loro concessi, si soccorrono e sorreggono vicendevolmente, godono dei più piccoli piaceri: guardare un bimbo crescere, farsi accarezzare il volto dal vento, condividere spontaneamente con chiunque, stringersi in una notte di tempesta. Quanto affascinanti, e meritevoli, agli occhi di Antonius. Antonius, che continua ad arrovellarsi: "Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto - dice alla Morte - Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie." Egli è alla ricerca di Dio, ma secondo un sentiero più ontologico che religioso: " E' così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e di miracoli che nessuno ha visto?" La sua è una sete insaziabile, un bisogno ed insieme un rifiuto: " Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, continua ad essere una realtà illusoria da cui non riesco a liberarmi … Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli … Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse." Sapere, sapere, sapere. L'orgoglio dell'intelletto. "Forse (Dio) non esiste" afferma la Morte. E il cavaliere: " Allora la vita è un assurdo errore. Nessuno può vivere con la Morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla." Quanto diversi, dunque, Mia e Jof. Con grande semplicità essi accettano l'idea di non comprendere e nell'atto stesso di farlo, si affidano fiduciosi al mistero del tempo. Cogliendo nella letizia l'essenza stessa della divinità.

 

C'è tutto, in questa pellicola affascinante del 1957, riflessione appassionata sul senso della vita, e pertanto della morte: la paura e lo smarrimento dell'uomo davanti all'incomprensibile; la vanità (vanitas vanitatis) di credere di poter modellare il tempo secondo i propri voleri. Dice Antonius: " La mia vita è stata vuota, l'ho passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di cose insignificanti. Lo dico senza amarezza né rimorso, perché so che la vita della maggior parte della gente è così." Ma soprattutto c'è l'amore: vero e unico motore del mondo. Il bianco e nero, i costumi, la evidente  "teatralità" statica rendono quest'opera solo apparentemente cupa e triste: la pestilenza tutt'attorno, il terrore della fine, la falsa umiltà, la punizione da espiare. Eppure, a mio avviso, un film profondamente ottimista e positivo. Intensamente religioso. La partita a scacchi del cavaliere è una sfida titanica dall'esito scontato, eppure, il coraggio del confronto ingigantisce la figura del giocatore debole. Sebbene egli non riesca a sciogliersi dai lacci delle intime inquietitudini, comunque, si mette in gioco. Non del tutto consapevole del proprio ruolo nella consequenzialità del mistero temporale. Ha voluto guardagnare momenti, non afferrandone appieno la finalità. La logica si paleserà ad Antonius progressivamente, sempre più chiara e semplice, come sempre più vicina la meta del viaggio - quel ritorno al castello, non più solo "casa" ma estrema condizione di corpo e di spirito. Ecco dunque che nelle ultime mosse sulla scacchiera, in quegli istanti concitati ed immobili, egli completa il proprio percorso, compiendo ciò che è giusto nella stagione appropriata: salvare Jof e Mia, farli fuggire. Perchè essi sono:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli (Matteo 5,3-12)

Beati, a loro altro tempo su questa terra. Perchè ancora hanno molto da fare. Per loro, per amor loro, Antonius ha giocato la partita. Ha combattuto la battaglia, pur consapevole dell'esito della guerra. Ora ne è pienamente consapevole. Esattamente come del fatto che il suo tempo sia arrivato: di accogliere, con serena rassegnazione, il proprio destino. Arriva dunque al castello, dove, rincontrata la moglie, attenderà l'arrivo dell'ombra nera, discreta ed inesorabile, insieme agli altri membri della piccola compagnia.

Il cavaliere riconosce la giustezza del tempo (il suo, di morire) e la accetta, sebbene ancora, fino alla fine, attanagliato dal dubbio sul senso del tutto.

Ma è il suo atto di fede potente e vigoroso, gratuito e salvifico, nell'amore ad accostarlo inconsapevolmente al divino.

L'amore, come valore assoluto, trascendendale, immortale (e quindi, sfuggente alla morte), senza tempo e senza spazio, questo ciò che resta e conta, sotto il sole. E forse oltre.

 

Se la vita è dubbio, allora è anche incertezza. Ma per fortuna, non sempre, angoscia. Perchè non è questo che ci viene suggerito e proposto. Il cielo è sereno, in questa giornata di inizio Agosto. "L'homme armé" mi riporta al tempo del film, scandito dagli accadimenti, ma guardati dai miei occhi contemporanei. Nella testa, sempre quella melodia: il mio personale commento musicale a quelle immagini. In realtà rinascimentale, come pure la danza macabra, come ancor più successiva la codifica moderna del gioco degli scacchi. Non anacronismi, corretti rimandi. Perchè le stagioni sono lineari per l'uomo, ma non per la Storia, e la storia. Il mondo scorre, tutt'attorno. Ed io sono qui ad osservarlo. Non capendolo, ma godendone. Il tempo è un mistero, e per ogni cosa c'è il suo momento. Ma siamo qui, possiamo cercarlo negli istanti che passano e diventano anni, possiamo vederlo sui nostri corpi e attraverso le nostre azioni, possiamo sfidarlo nell'atto di generare e rendere eterno un atomo, almeno uno e forse solo, di noi. Possiamo assecondarlo, seguendolo diligenti nelle sue pieghe, o possiamo sbagliarlo rincorrendo la nostra volontà, forse anche per un respiro appena. La vita, in qualunque momento, secondo ogni tempo concessoci, attraverso le paludi del dubbio, con o contro volontà, è un dono. La gioia sincera ed ingenua di apprezzarla, sempre e comunque, il dono più grande. Solo imparando ad armonizzare il nostro tempo interiore con quello giusto sotto il sole potremo assaporarne tutta l'essenza, e forse, accettarne imcomprensibilità e precarietà.

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