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"Le cose che restano" - Guida agli ultimi due episodi
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Erano esattamente sette anni che mi rifiutavo di vedere un prodotto televisivo della Rai, dai tempi di "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana. Ma vuoi per il fatto che "Le cose che restano" fosse stato presentato al Festival di Roma, vuoi per il fatto che il regista sia quel Gianluca Maria Tavarelli che anni fa mi emozionò per il suo Paolo Borsellino televisivo, lunedì scorso, come stasera, mi sono approntato alla visione di quest'opera (352 minuti divisi in quattro parti) che merita di esser mostrata come rappresentativa del nostro Paese.

 

Le cose che restano (2010)

di Gianluca Maria Tavarelli con Paola Cortellesi, Claudio Santamaria, Ennio Fantastichini, Vincenzo Amato, Lorenzo Balducci, Antonia Liskova, Francesco Scianna

 

Il cinema di Tavarelli farà storcere il naso ai più, si tratta di un regista viscerale, senza pause, e per lo più propenso ai sentimenti ma la sceneggiatura di questo film, scritta da Rulli & Petraglia, stessi sceneggiatori del film di Giordana, «sembra ripartire da La Famiglia [di Scola], a iniziare dalla casa dove tutto parte e tutto ricomincia, e da quel lungo corridoio pieno, vuoto e poi di nuovo pieno di anime e dolori, calore e gelo» (Aldo Fittante, Film Tv, anno 18 n.50, pag. 37).

 

 

Ecco una breve guida (diffusa dall'Ufficio Stampa Rai) per chi se lo fosse perso e volesse godersi gli ultimi due episodi finali, in onda mercoledì 22 dicembre e mercoledì 29 dicembre su Raiuno alle 21,10.

 

 

 

PRESENTAZIONE


Una famiglia, quella Giordani, cresciuta come tante, tra alti e bassi,  nel tranquillizzante tran tran quotidiano e protetta dalla serenità e dalla sicurezza delle quattro mura domestiche. Tutto sembra procedere come sempre. Un figlio a un passo dalla laurea, un altro alle prese con i primi batticuore, l’arrivo imminente di un nipotino, un viaggio all’estero. Poi, in un giorno qualunque, tutto sembra venire  inghiottito da un buco nero: Lorenzo, il più giovane di casa, perde la vita in un incidente stradale. È la fine delle certezze, dell’unione, della condivisione, del cammino comune. È la linea di demarcazione tra un  “passato”, che non tornerà più e un presente lacerante che, come una possente forza centrifuga, catapulta tutti i personaggi lontani tra loro, a percorrere strade differenti, alla ricerca, ognuno, di un antidoto diverso allo stesso male: il dolore di “sopravvivere”.

Morto Lorenzo, casa Giordani si sgretola. Così i tre protagonisti della storia, Nora (Paola Cortellesi), Andrea (Claudio Santamaria) e Nino (Lorenzo Balducci),  cercano, con fatica, di trovare un nuovo equilibrio dopo la scomparsa del fratello minore e cominciano proprio abbandonando quella casa, che li aveva protetti e visti crescere. Ormai trentenni si ritrovano inevitabilmente a confrontarsi con una realtà complessa, tra difficoltà nel lavoro, nelle relazioni sociali e nei legami affettivi. È l’occasione anche per venire a contatto con il “mondo reale”, spesso drammatico, fatto di privazioni,  stereotipi e di indifferenza.

“Le cose che restano” è una storia dei giorni nostri che diventa simbolo di un intero paese, un paese alla ricerca di una nuova identità e che racconta chi siamo, cosa siamo diventati e cosa non vogliamo più essere.

 

Una produzione Rai Fiction con la partecipazione di France Télévisions e MPF, prodotto da Angelo Barbagallo per BiBi Film Tv. Un film in quattro puntate per la regia di Gianluca Maria Tavarelli, in onda in prima serata su Rai1. Firmano soggetto e sceneggiatura Sandro Petraglia e Stefano Rulli, autori anche del film “La meglio gioventù” di cui questa nuova serie rappresenta il seguito ideale.

 

A Paola Cortellesi, artista poliedrica , volto noto e amato della tv , il compito di interpretare Nora, psicologa  e componente forte della famiglia Giordani che dopo la tragedia si ritrova ad affrontare la maternità e i problemi della nuova famiglia.  Claudio Santamaria, l’attore romano interprete di fiction di grande successo come “Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu”, vestirà i panni di Andrea, il fratello maggiore, omosessuale che si ritroverà ad affrontare una complicata storia d’amore. Lorenzo Balducci  sarà Nino, un giovane architetto sensibile e coraggioso in rotta di collisione con gli “schemi” della vita e che diventa adulto imparando proprio dai suoi tanti sofferti errori. L’attore Ennio Fantastichini interpreterà Pietro, il padre e  Daniela Giordano sarà mamma Anita.  Completano il cast Antonia Liskova (Francesca), Leila Bekhti (Alina), Farida Rahouadj (Shaba), Alessandro Sperduti (Lorenzo), Valentina D’Agostino ( Valentina), Enrico Roccaforte (Vittorio Blasi), Maurilio Leto ( Alberto), Karen Ciaurro (Lila),  Vincenzo Amato (professor Nicolai), Thierry Neuvic (Michel), Francesco Scianna (Cataldo).

 

 

LA STORIA

“Ci sono cose che volano,
Uccelli, Ore, Calabroni,
Ma di loro non m’importa.
Poi ci sono le cose che restano…”
Emily Dickinson

 

“Le cose che restano” è il verso di una poesia di Emily Dickinson, citata nella parte finale di questa miniserie. E le cose che restano sono quelle che sopravvivono al dolore, al tempo, alla disgregazione, quelle che rimangono dopo che la realtà è cambiata e si è trasformata.

È la storia di una famiglia che si divide e di una casa che si svuota, a seguito di un evento doloroso. Ma è anche la storia di come, a poco a poco, la famiglia e la casa ritrovano vita e senso, lasciandosi abitare – e contaminare – da nuove esistenze. Nora, Andrea e Nino reagiscono con fatica e coraggio al disorientamento che li colpisce, cercando – fuori e oltre la famiglia – altri mondi, altri amori, altre spinte a vivere. Accanto ad essi si muovono i nuovi cittadini italiani, uomini e donne tra i venti e i quaranta anni, presi nel giro del lavoro che c’è e non c’è, della responsabilità e della moralità che si appannano, delle guerre che combattiamo senza dire che le combattiamo, dei popoli che vengono a noi dalla povertà e ci interrogano. Così, questa famiglia che confusamente resiste e faticosamente si ricompone, si fa simbolo di un intero paese alla ricerca di una nuova identità.

Della nostra società si raccontano le incertezze, la fragilità dei punti di riferimento, la complessità e la variegata realtà, ma anche la speranza, gli affetti che restano, la capacità di amare ancora e di costruire legami.

E se Le cose che restano racconta l’Italia di oggi lo fa in un modo profondo e universale, tanto che la miniserie si è potuta avvalere della coproduzione con la televisione pubblica francese, che ha amato la scrittura di questo romanzo televisivo sulla contemporaneità e ha voluto cofinanziarlo.

 

 

LE PUNTATE

 

Prima
La vita in casa Giordani scorre tranquilla. Si attende da Nora la nascita del primo nipote, il rientro in Italia di Andrea funzionario del ministero degli esteri, la laurea in architettura di Nino. Quanto a Lorenzo, l’ultimo dei fratelli, è alle prese col suo primo amore. Ma, inattesa, la morte – in un incidente d’auto – si porta via proprio Lorenzo. Il dolore per quella scomparsa assurda sconvolge tutti gli equilibri. Anita, la madre, si chiude in un mondo tutto suo, inaccessibile agli altri e, dopo un tentativo di suicidio, chiede di essere portata in una casa di cura lontano da tutti. Nino, che poco prima della morte di Lorenzo aveva scoperto una relazione sentimentale del padre, sfoga su di lui la sua rabbia, abbandona la casa e va a vivere in un appartamento di studenti. Si laurea senza avvertire nessuno, e quando il suo professore Simone Nicolai gli offre la possibilità di lavorare all’università, rifiuta e si fa invece assumere come manovale in un cantiere. Il padre intanto prende la decisione di accettare una proposta di lavoro all’estero.
Proprio per parlare di Nino, il fratello maggiore Andrea va a cercare la sorella nella ASL in cui è psicologa. Ma Nora non è in studio. Aspettando che torni, Andrea conosce un francese di nome Michel, che è lì anche lui per incontrare Nora, la sua terapeuta – e i due fanno amicizia. Insomma, ognuno sembra ormai seguire un proprio percorso separato.
Nora, la più forte ed equilibrata, si trova a dividere il suo tempo tra la sua vita di giovane madre e un nuovo paziente particolarmente complesso, il capitano dell’aeronautica Blasi, che a seguito di un grave incidente in Afghanistan ha perso la memoria.
Ma il destino ha in serbo una sorpresa: Shaba, una profuga sbarcata sulla costa siciliana alla ricerca di sua figlia Alina scomparsa da mesi, incrocia Nino, lì nell’isola per incontrare il fratello. Nino, istintivo com’è, la aiuta, la porta con sé a Roma, le offre rifugio nell’appartamento dei suoi ormai deserto…
 

 

Seconda
Nino, che è andato in Sicilia ospite del fratello, aiuta Shaba, una profuga clandestina decisa a venire a Roma a cercare sua figlia Alina: Nino la ospita nell’appartamento dei suoi e chiede ad Andrea di aiutarlo nella ricerca. Nel frattempo la conoscenza e la stima con il professor Nicolai, con cui si è laureato, diventa a poco a poco amicizia. Ma, a complicare le cose, c’è l’attrazione che Nino prova per Francesca, la moglie del professore. Una sera Nino la bacia. Inizia così una relazione tra i due, fatta di passione e sensi di colpa. Intanto Andrea, che s’è innamorato di Michel, incontrato per caso alla Asl dove Nora fa la psicologa, scopre che l’uomo ha una figlia piccola, nata da una breve storia con una giovane tossica. La difficoltà di Andrea a vivere legami sentimentali profondi gli fa troncare la storia. Nello stesso tempo, con l’aiuto del poliziotto Cataldo infiltrato nell’ambiente del traffico di droga, ritrova la figlia di Shaba e scopre che fa la prostituta. L’incontro tra Alina e sua madre è un fallimento: la ragazza rifiuta di seguire Shaba così come rifiuta la proposta di Cataldo di ‘collaborare’ con la polizia. Proposta che invece accetta la sua amica Yelena, pur di liberarsi da quella vita di umiliazioni. La ragazza viene però ritrovata morta, e Alina viene sistemata da Cataldo in un appartamento ‘protetto’. Di fronte al suo dolore, Andrea si offre di accompagnare la salma di Yelena in Montenegro. Quel breve viaggio diventa una lezione di vita che lo porta a cercare di nuovo Michel, per dirgli che vorrebbe vivere, con lui e Lila, nella grande casa di famiglia…
 

 

Terza
Nino – incapace di accorgersi dell’affetto che gli mostra Valentina, una sua compagna d’università – si innamora della giovane moglie del suo professore e vive con lei una passione resa amara da profondi sensi di colpa. Malgrado le sue paure, Andrea propone a Michel di vivere insieme con la piccola Lila, nella casa Giordano. L’arrivo della piccola riporta vita tra quelle mura inabitate. Nello stesso tempo anche Alina, la figlia di Shaba – ritrovata grazie all’aiuto del poliziotto infiltrato Cataldo – vince le sue paure: denuncia infatti i responsabili dell’organizzazione che la sfruttava e ottiene per sé e per sua madre il permesso di soggiorno. Che arriva assieme alla scoperta dell’amore per Cataldo. La grande casa adesso è di nuovo animata, ma la felicità domestica dura poco. Michel, il compagno di Andrea ha un segreto: è molto malato, e vuole morire senza dover essere di peso per gli altri. Decide perciò di scomparire dalla vita di Andrea e da quella di sua figlia Lila. A Shaba e a Nino chiede di non rivelare a nessuno la sua scelta.
Anche un’altra persona, ha scelto: Francesca. Dopo aver rivelato a Nino di essere incinta di un bambino suo, una mattina abbandona la sua casa, scompare. Nino e il professore la cercano disperati insieme, e alla fine la ritrovano. Ha scelto, da sola, di non portare avanti la gravidanza. Un gesto estremo, che pone fine alla storia con Nino, proprio mentre Nora è alle prese con uno strano disagio per il fatto che una donna un tempo amata dal capitano Blasi, Corinna, è ricomparsa all’improvviso dal suo passato chiedendo di poterlo incontrare.
 

 

Quarta
Pietro, il padre della famiglia Giordano, dopo lungo tempo, torna finalmente in Italia. Al suo rientro trova una piacevole sorpresa: la casa è ora abitata da nuovi inquilini, Shaba, Alina e Lila. Questa nuova realtà è un punto di partenza per recuperare gli affetti e i rapporti con la famiglia disgregata. Come prima cosa  Pietro cerca di risanare il rapporto con Nino, che ancora vive nell’appartamento studentesco di Piazza Vittorio. Poi convince Michel a incontrare Andrea e a permettere agli altri di stargli vicino, prima della imminente fine. E infine va dalla moglie, Anita, che ancora vive nella casa di cura, e le confessa che è stato lui a scriverle le lettere a firma del figlio scomparso Lorenzo. I due si sciolgono finalmente un abbraccio commosso che segna il ritorno alla realtà e alla vita di Anita.  Pietro riesce anche a risolvere il problema dell’affidamento di Lila, la figlia di Michel, che così può entrare a tutti gli effetti a far parte della famiglia Giordano.
Nel frattempo Nino e Valentina lavorano assieme a un importante progetto architettonico; questa occasione farà sì che il loro rapporto d’amicizia si trasformi finalmente in qualcosa di diverso.
Grandi cambiamenti anche per Nora che è molto turbata dalla vicenda del capitano Blasi. Nora si fa carico di creare l’incontro con la sua fidanzata, con la quale Blasi ritroverà forse parte di sé. Tutto questo ha un riverbero su Nora molto forte, fino a portarla all’estrema decisione di lasciare suo marito, con il quale, ormai da troppo tempo, non c’era più alcun dialogo, alcuna intimità. E così, anche Nora torna a vivere con suo figlio nell’appartamento dei Giordano che, ricomposto da questo nuovo nucleo famigliare eterogeneo, è ritornato finalmente a vivere.

 

 

 

NOTE DI REGIA
di Gianluca Maria Tavarelli


Avevo apprezzato enormemente La meglio gioventù, vidi il film tutto di seguito all’anteprima dell’Auditorium di Roma. Mi piace molto in generale il racconto “nel tempo”, come Heimat, epopee che durano molto e sviluppano generazioni che si alternano, eventi storici che si mescolano con accadimenti privati. Quando Angelo Barbagallo mi ha proposto il progetto de Le cose che restano mi è piaciuto subito. Una vicenda che si svolge nell’arco d’un paio d’anni appena, ma che aveva bisogno d’uno sviluppo narrativo di sei ore perché i personaggi, i percorsi che compiono, hanno necessità di tempo. I traumi che la vita impone ai personaggi necessitavano d’uno sviluppo più lento. Rispetto all’eredità de La meglio gioventù non mi sono mai sentito penalizzato, anzi è un’ombra che fa bene. Sono orgoglioso di dire che Le cose che restano nasce da una costola di quel grande successo.
Le cose che restano racconta una vicenda del tutto diversa ma con la stessa straordinaria capacità di Rulli e Petraglia d’intrecciare le storie, di riuscire ad inventare snodi narrativi attraverso i quali la trama procede o cambia binario. Un grande affresco sulla sostanza della società italiana, anzi direi della società occidentale, che affrontano temi come l’immigrazione, l’omosessualità, un’apertura nuova nei rapporti interpersonali.
Il mio lavoro è consistito nel dare vita alla sceneggiatura attraverso gli attori, gli ambienti, la messa in scena vera e propria. Le vicende che il film racconta sono molto minime, tristemente quotidiane, piccoli spostamenti del cuore, grandi o piccoli tradimenti. Una quotidianità in linea con i miei film precedenti. Le cose minime sono raccontabili soltanto attraverso degli attori in grado di riportare quelle sfumature. È un film pieno di dolore, d’emozione tangibile. Era importante non renderlo lacrimevole, grazie a degli attori che recitassero in modo molto naturale, molto vero.
Avevo subito pensato a Daniela Giordano per il ruolo della madre, perché avevo già lavorato con lei in Paolo Borsellino. Sapevo che ha le corde perfette senza bisogno di “recitare”, con quel suo volto da bambina maturata. Lo spaesamento del personaggio della madre è stato reso da Daniela in modo naturale, senza mai calcare sull’angoscia, soltanto con il suo sorriso dolce che nasconde la disperazione. Nel caso di Claudio Santamaria, che interpreta il ruolo del fratello omosessuale, abbiamo cercato di raccontare l’amore di due persone l’una per l’altra sottraendoci a tutti i possibili luoghi comuni, alle posture del corpo o della voce, mirando all’anima di quel rapporto. Esattamente come lo vive una coppia eterosessuale, con gli stessi desideri. Anche di Paola Cortellesi e di Ennio Fantastichini conoscevo già il potenziale enorme.
A me piacciono molto gli attori “caldi”, nel senso che abbiano un proprio vissuto, un loro mondo messo totalmente a disposizione del film. Penso che un padre come quello che interpreta Ennio non debba essere infallibile, non piangere mai, ma che debba avere le sue debolezze. Però lui sa esserci nei momenti importanti, e quando ritorna è realmente un padre, non nel senso dell’autorità ma perché capisce i problemi dei figli e sa far sì che si aiutino da soli.
Più complicato è stato scegliere un attore per il ruolo di Nino, dell’età cioè d’uno studente universitario.  Abbiamo fatto moltissimi provini. Lorenzo Balducci ne fece due, e alla seconda mandata interpretò tre scene perfettamente. È un attore che sa trasformare qualunque cosa gli fai fare in un modo vero e credibile. Nino è difficile, controverso, meno “positivo” rispetto agli altri personaggi. Critica le cose che fa, non è coerente, aggredisce il padre e poi si comporta nel suo stesso modo, a volte è saputello. C’era il rischio di rendere Nino antipatico, oppure di spogliarlo di certe sue contraddizioni. Lorenzo è riuscito invece, malgrado i lati negativi del personaggio, a tenerci sempre dalla sua parte, a farsi capire. Per il ruolo del fratello minore cercavo invece un attore che fosse un po’ il suo opposto. Facendo una serie di provini abbiamo incontrato Alessandro Sperduti che è molto allegro nella vita, ti trasmette subito un senso di amicizia. Sul set con gli attori in generale non abbiamo fatto grandi prove, quasi sempre abbiamo subito girato. Volevo che non perdessero la spontaneità, ma anche l’insicurezza che hanno la prima volta che interpretano una scena. Spesso giravamo anche le prove.
In una prima versione il testo s’intitolava “La casa”, ed era quella la protagonista del film. Ci abbiamo messo molto a trovarla, ad arredarla, trasformando degli uffici notarili dismessi in una dimora borghese. La casa è importantissima per quella famiglia numerosa, fracassona, e segue il percorso dei personaggi. Dopo un periodo iniziale di luci accese si va svuotando, rimane chiusa, al buio, e alla fine viene riconquistata gradualmente, stanza per stanza, riprendendo le sue funzioni vitali, la sua forza. Si riempie di altre vite, di altre situazioni. Analogamente la macchina di Lorenzo segue un percorso simile, evoca come un totem un personaggio che nessuno riesce a dimenticare. La macchina riprende poi vita, riporta Nino dalla madre esorcizzando un dolore. Dallo sfasciacarrozze la macchina diventa il simbolo di qualcosa che non puoi più portarti dietro per continuare a vivere.
Il film racconta gli immigrati come esseri umani a tutto tondo, capaci di pensare. Shaba infatti è il personaggio che capisce meglio quanto accade. Quando entra nella casa di notte con uno sguardo percepisce tutto ciò che era successo lì. Lei si conquista lo spazio da sola, con la sua bontà, la sua intelligenza, la sua capacità d’aiutare Nino senza mai chiedergli niente. Anche la madre di Nino si specchia completamente in Shaba.

 

 

NOTE DEGLI SCENEGGIATORI
di Sandro Petraglia e Stefano Rulli


SP: Una decina d’anni fa avevamo scritto per la RAI un soggetto  in otto parti. Eravamo partiti da un file che avevamo chiamato “I nostri padri”, conteneva le storie che ci avevano raccontato i nostri genitori sul periodo della fine della guerra, quando le due coppie si erano conosciute e innamorate e sposate. La sceneggiatura delle prime quattro parti, che arrivavano al 1960, divenne la miniserie La vita che verrà per la regia di Pasquale Pozzessere. Ma non volevamo fermarci lì. L’idea era di arrivare fino all’oggi, con il racconto della nostra generazione, il periodo dagli anni ’60 agli anni ’80, e che divenne La meglio gioventù, con la regia di Marco Tullio Giordana. A questo punto non ci restava che raccontare – dopo ‘i nostri padri’ e ‘noi’ – ‘i nostri figli’, la generazione che oggi va dai venti ai trentacinque anni. Di quest’idea avevamo parlato ad Angelo Barbagallo, però dopo La meglio gioventù per qualche anno non siamo riusciti a trovare una storia, un soggetto, che ci facesse ‘vedere’ i personaggi. Fino al momento in cui abbiamo sentito che potevamo raccontare tre fratelli. Da lì è nato Le cose che restano.

SR: La famiglia è al centro dell’immaginario degli italiani, al centro dell’identità sociale. La famiglia proletaria de La vita che verrà nasce dalla guerra, dalla miseria, e cerca di affrancarsi attraverso un’ascesa sociale, una solidarietà che rimanda a qualcosa d’antico, alle famiglie patriarcali. Quando il nucleo delle due coppie si scinde, quando comincia a vivere meglio, perde la propria identità tra un passato che non è più il loro e una condizione piccolo borghese che gli resta estranea. La meglio gioventù racconta invece una famiglia borghese in cui la rottura interna è culturale, legata alla politica, alle difficoltà di misurarsi con quegli anni prima belli e poi terribili che vanno dalla fine degli anni sessanta al 2000.  In quest’ultimo lavoro, Le cose che restano, le figure dei genitori – che in passato erano centrali, portanti – si perdono, si smarriscono, vanno via, lasciano la casa. E i tre figli cercano di trovare ognuno una propria strada individuale, attraverso conflitti e rapporti molto diversi tra loro, che però gli permettono di ridare vita alla casa svuotata, che diventa simbolica delle possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate dal sangue ma dal bisogno di una identità esistenziale talvolta più profonda del sangue.

SP: Ne Le cose che restano manca il filtro della memoria e quindi il ritmo del racconto è diverso: nelle storie precedenti c’era tutto il tempo di mostrare  ragazzi che diventavano adulti, che si sposavano, che diventavano padri, mentre i dolori a poco a poco diventavano cicatrici. Qui la scommessa è stata di fare una storia ‘tutta al presente’, con personaggi che incontri oggi, per strada, in un bar, su un autobus. Oggi la ‘casa di famiglia’ sembra non esistere più, la famiglia esplode, si allarga, arrivano persone da fuori che ci contaminano, che talvolta ci complicano la vita, che talvolta ce la arricchiscono. E anche noi stessi andiamo fuori, viaggiamo per il mondo, costruiamo storie, e rapporti, e famiglie, lontano da qui…

SR: Scrivere Le cose che restano è stato più difficile dal punto di vista della struttura del racconto e dei personaggi – che non hanno un centro preciso. I personaggi de La meglio gioventù avevano una loro traiettoria, un fratello voleva diventare psichiatra,  l’altro poliziotto, la madre era una professoressa di liceo, la sorella maggiore era una giudice. Tutte cose ‘scelte’. Ne Le cose che restano invece il fratello più giovane, Nino, si laurea in architettura e poi va a fare il manovale. Il maggiore, Andrea, lavorando col Ministero degli Esteri, è sempre in giro per il mondo, sempre in fuga. E perfino Nora, la sorella psicologa, che all’apparenza appare come il personaggio più solido, vive più le vite degli altri, dei suoi pazienti, che la propria. Insomma, si tratta di personaggi che non vivono su colpi di scena o punti di svolta che portano da A a B e da B a C. E questa, per noi, è stata una novità che ha investito anche il nostro modo di scrivere i dialoghi. Era la materia stessa che lo richiedeva. Se davi troppa chiarezza e troppa spinta  ‘politica’ a questi personaggi, perdevano in verità.

SP: Il nostro file iniziale stavolta si chiamava “The home”, perché la vera spinta iniziale è arrivata quando abbiamo cominciato a immaginare una ‘casa’ calda, accogliente, viva: un grande appartamento in cui vivono un padre professionista, la madre ex medico, e i figli. Abbiamo subito sentito che non potevamo puntare troppo sulla trama, e il risultato è stato che tutto s’è fatto più faticoso, perché quando si fanno film con meno intreccio, paradossalmente ci vuole più lavoro. Se i fatti sono molto forti, sono loro a guidare gli snodi narrativi. Ci siamo tenuti un po’ bassi per  permettere ai sentimenti di emergere più forti.

SR: Insomma abbiamo cercato di depurare il racconto dai pretesti per cercare appunto quali sono ‘le cose che restano’ nelle relazioni tra i personaggi.

SP: Il personaggio di Nino, che è il nostro vero protagonista, è un essere trasparente e fragile, dotato di una sensibilità che neanche sa di avere, un personaggio che per tutto il film si mette in gioco continuamente. E’ una cosa che sentiamo intorno a noi, nella generazione dei ragazzi – di cui si parla con molte superficialità e approssimazioni. Questi ragazzi che girano le strade, che studiano, che iniziano faticosamente a lavorare, hanno tantissimi problemi, sociali, economici, il precariato, l’identità, gli amori, ma hanno intorno a loro un mondo, almeno qui in Italia, che sembra fatto apposta per farli star buoni, per indurli a essere tranquilli, a rientrare nell’ordine. Così ci siamo detti: facciamo un matto, uno che non sta affatto tranquillo, uno che fa casino, che sbaglia…

SR: Conoscevamo Gianluca Tavarelli fin dai suoi corti. Come giurati del Premio Solinas, anni fa avevamo contribuito a premiare – ovviamente senza sapere che fosse firmata da lui – la sceneggiatura del suo lungometraggio d’esordio. Ci sembra che – a parte l’ottimo lavoro nella scelta del cast, nella messa in scena, nel montaggio e in tutte le mille cose di cui si devono occupare i registi – abbia colto esattamente il sottotesto, il ‘non detto’ dei vari personaggi. Che è poi, per noi, la cosa più importante di tutte.

 

 

I PERSONAGGI

Paola Cortellesi – Nora

 
Le cose che restano rappresenta il mio terzo lavoro con Gianluca Tavarelli. Avevo fatto un ruolo nel suo film Non prendere impegni stasera e poi ho interpretato Maria Montessori, una miniserie per la televisione. Quando mi ha chiamato per Le cose che restano non avevo avuto proprio nessun dubbio. C’era una sceneggiatura scritta da due autori straordinari come Rulli e Petraglia, una storia bellissima secondo me e secondo tutti.
Racconta la trasformazione di una casa che ospita un ampio nucleo famigliare che pian piano si sfalda e poi si ricompone in un altro modo. Il mio personaggio si occupa professionalmente d’indagare nella psicologia delle persone. Un membro ben saldo della famiglia, che però viene travolto dalla tragedia e deve barcamenarsi come può tra il proprio mestiere e i dolori d’un essere umano. Nora affronta una gravidanza, mette su famiglia, perde via via le certezze che aveva e comincia a sfaldarsi anche lei. Quando la casa si riempie di persone nuove, anche noi protagonisti ci apriamo a storie nuove che non avremmo mai pensato di vivere.
Le “cose che restano” per Nora sono l’amore per i fratelli, per la famiglia, l’amore in ogni sua forma. Mi sono ritrovata in quest’occasione a lavorare in famiglia, con Gianluca, Roberto Forza, la loro squadra, con Claudio Santamaria, fraterno amico da molti anni con cui avevo studiato a scuola di teatro e poi avevo recitato in una compagnia di prosa. Le “cose che restano” per me come attrice sono le esperienze bellissime di poter lavorare fianco a fianco con tanti colleghi straordinari. Il film affronta indubbiamente un sacco di temi attuali, anche scomodi e non facilissimi da esprimere. Una storia complessa che può accadere, e che magari è accaduta, a persone che noi non conosciamo e chissà se mai le incontreremo?

 

 

Claudio Santamaria – Andrea

 
Anni fa avevo preso parte alla miniserie La vita che verrà diretta da Pasquale Pozzessere, primo episodio di questo vasto trittico televisivo scritto da Rulli e Petraglia. Interpretavo un ragazzo che lavora nella tipografia acquistata dal personaggio di Stefano Dionisi.
Ne Le cose che restano il mio è un personaggio solare che dovrebbe portare un po’ di leggerezza nella famiglia Giordani. Ma anche lui vive dei momenti molto bui. Non vuole mettere radici. Fa un lavoro che lo porta sempre in giro e che riguarda il controllo dell’immigrazione. Un tema quanto mai attuale, che ci permette di penetrare nell’esperienza umana di un’immigrata. Persone che scappano dai loro paesi per trovare una vita migliore. Andrea è un omosessuale, che ho interpretato senza il bisogno di caratterizzazioni macchiettistiche da gay. Di solito si tende sempre a ridicolizzare un’omosessualità che ancora non si riesce ad accettare.
Il set di Tavarelli era molto armonioso, un’atmosfera da ottimo cinema. È un regista che cura molto la recitazione e ha scelto attori fantastici, con alcuni dei quali avevo già avuto la fortuna di lavorare. Tavarelli ci ha dato la possibilità di recitare con gli sguardi, con i silenzi in una tv che come sappiamo è dominata da i dialoghi a raffica.

 

 

Ennio Fantastichini – Pietro

 
Avevo fatto una Piovra scritta da Petraglia e Rulli, li stimo moltissimo da un sacco di anni. Non avevo mai lavorato con Angelo Barbagallo, un produttore che ha un percorso molto particolare in Italia. Tra l’altro, avevo assistito alla “maratona” de La meglio gioventù all’Auditorium e m’era piaciuto moltissimo. Quando ho letto la sceneggiatura de Le cose che restano sono rimasto entusiasta, mi sembrava un progetto molto contemporaneo. La crisi della famiglia, con quel personaggio bellissimo d’immigrata clandestina che diventa una specie di madre alternativa. Io ho un figlio di 14 anni e mi veniva offerto il personaggio d’un padre che ha un rapporto conflittuale con i figli.
Un racconto epocale che attraversa tutta la nostra società con le sue spinte razziste e omofobe.
Pietro, il mio personaggio, è molto presente nella prima e nella quarta parte. Paradossalmente, alla fine tornando a casa Pietro rimette le cose a posto, riesce a riguadagnare una specie di miracoloso equilibrio, contrariamente a quanto ci accade di solito nella vita.
Sono altamente affascinato da progetti pedagogici per la televisione come Le cose che restano. Ho una visione molto rosselliniana della tv, credo che dovrebbe educare le masse ad aumentare la qualità della propria coscienza civile, a combattere l’intolleranza, a promuovere l’integrazione, l’armonia. La ricchezza sta nella diversità culturale non nella somiglianza. Una storia come quella che racconta Le cose che restano è certamente accaduta o potrà accadere nella realtà.
Per la prima volta nella mia vita di attore, sempre insofferente rispetto a battute mal scritte o imprecise, nei dialoghi di questo film non ho trovato né una cosa di più né una di meno. Semplicemente perfetti. Il set de Le cose che restano era pervaso da una grande emozione, un’attenzione positiva, una concentrazione che purtroppo vedo scomparire nelle produzioni televisive. Era un vero piacere lavorare con attori che conosco e che stimo, tutti quanti coinvolti con la stessa emotività e la stessa intensità.
Le “cose che restano” per me sono la voglia di capire, di accogliere gli altri, al di là delle loro appartenenze religiose o etniche, i valori base della democrazia. È un film che dovrebbe far riflettere un paese un po’ allo sbando sotto il profilo etico.

 

 

Daniela Giordano – Anita

 
Quando mi ha chiamato Gianluca Tavarelli pensavo d’essere completamente fuori parte per il personaggio della madre, oltretutto con dei colleghi non tanto più giovani di me ad interpretare i miei figli. Tavarelli invece ne era convintissimo e sottolineava l’esperienza fatta con lui nel ruolo di Rita Borsellino. Quando ho letto la sceneggiatura mi sono innamorata pazzamente del personaggio. Io ho una figlia di 12 anni e un giorno ho avuto un’illuminazione: in realtà per le madri i figli non crescono mai, sono come se avessero sempre 3 anni! Di conseguenza mi sono completamente rilassata e mi sono affidata a Tavarelli.
Una sceneggiatura stupenda in cui tutto era stato attentamente pensato. C’era un tale amore per i personaggi, la scelta delle parole, le pause e i punti. Raccontare l’oggi è assai difficile, c’è una tale confusione. Petraglia, Rulli e Tavarelli sono riusciti a raccontare lo smarrimento della società rappresentato da quel “villaggio fantasma” che è la famiglia Giordani del film. Quando qualcosa s’incrina, ci cade tutto addosso. Siamo stati educati all’illusione di vivere dentro una pubblicità del Mulino Bianco. All’inizio sembra una famiglia perfetta, si sfascia però al momento della perdita d’un figlio. Meravigliosa l’identità tra la madre e la casa. Quando quell’identità svanisce, lei se ne va via e la casa si svuota. Si svuota di quella tipologia di famiglia basata essenzialmente sulla consuetudine.
Un po’ alla volta ne uscirà fuori una tipologia del tutto nuova, un microcosmo del tutto diverso rispetto al modello che ci vogliono continuamente propagandare. Ci viene imposta l’ossessione dei consumi, delle cose, tipo il telefonino, cose che non restano cioè. Ciò che resta è tutto fuorché le cose. La nostra realtà oggi è multietnica e multiculturale, oltre che multisessuale. Le cose che restano lo racconta benissimo. Con Ennio Fantastichini avevo lavorato altre volte, tra l’altro in Paolo Borsellino di Tavarelli.  E i bravissimi attori che interpretano i figli devo dire che li ho vissuti tutti quanti proprio come se fossero i figli miei.

 

 

Farida Rahouadj – Shaba

 Il mio personaggio di immigrata mi sembra magico, magnifico. Ho dovuto lavorare parecchio per essere alla sua altezza, al di là del problema che parla una lingua diversa dalla mia. Una donna che proviene da una guerra e che, anziché richiedere aiuto, è lei stessa ad aiutare l’intera famiglia de Le cose che restano. C’è un grande amore che lega tutti i membri di quella famiglia.
Un’esperienza bellissima con una troupe formidabile in un paese che adoro. Ciò mi ha spinto a tentare di parlare l’italiano al meglio. Le cose che restano – un po’ come La meglio gioventù – è pervaso da un’immensa malinconia e nello stesso tempo da una speranza immensa. Vederlo, sia pure in una copia lavoro, mi ha fatto un’enorme impressione. Si resta immediatamente coinvolti nelle vicende dei vari personaggi. Il dolore che Shaba ha sofferto nel suo “no man’s land” bellico le permette di capire perfettamente il “no man’s land” psicologico e affettivo in cui è sprofondata quella famiglia borghese.
Sul set c’era un sacco di umanità, si scherzava continuamente. Beninteso si lavorava con grande serietà ma senza prendersi troppo sul serio, una nuance non da poco. Noi francesi abbiamo tanto da imparare dagli italiani anche sotto il profilo della rapidità, dell’efficienza tecnica, dell’entusiasmo creativo. Avevo lavorato con Philippe Noiret e lui adorava l’Italia e me ne aveva parlato molto. Mi sono ricordata spesso di lui mentre giravo questo film a Roma e sono andata a cena nei suoi locali preferiti. “Ce qui reste” potrebbe rendere in francese il senso del titolo. Credo proprio che il pubblico francese adorerà Le cose che restano.

 

 

Lorenzo Balducci – Nino

 
Ai due provini successivi mi sono affidato al mio istinto perché consideravo Nino molto simile a me per certi aspetti della sua personalità. Mi affascinava la sua inquietudine, il contrasto tra i suoi pensieri e le sue azioni. Tavarelli mi ha scelto dandomi un’opportunità semplicemente straordinaria: vivere cinque mesi sul set con dei professionisti da cui ho imparato molto. Mi sentivo il più giovane membro della famiglia e artisticamente il più inesperto.
La vicenda è talmente complessa che ho cercato di dividere in settori i vari rapporti che Nino ha con ciascuno dei personaggi dei quattro episodi. L’ambito familiare, l’ambito sentimentale, gli amici, e poi c’è Nino da solo con il suo carattere. Apparentemente si può pensare che Nino sia un ribelle contro la famiglia, contro le istituzioni, che debba dire sempre il contrario di ciò che dicono gli altri. Ci si rende conto però via via che Nino ha fatto suo il concetto di famiglia e lo porta con sè anche quand’è lontano da suo padre e da sua madre. Nino ce l’ha col padre perché ha un’amante, ma poi è lui stesso ad avere una relazione con la moglie del suo professore. Mi piace che la sua evoluzione venga raccontata senza ipocrisie. Nino commette tanti errori. Non ha paura di vivere la propria vita, quindi mettendosi continuamente in gioco si trova a vivere in contesti più grandi di lui. Spesso l’ingenuità, la passione anziché la razionalità lo spingono a dire la sua e a sbagliare.
Ho cercato di fare in modo che Nino non rappresentasse un’intera generazione ma soltanto se stesso, una persona che vive oggi, in un contesto ben diverso rispetto a quello raccontato da La meglio gioventù. Nino non è un superficiale, può essere egoista, arrogante a volte, ma è curioso della vita, tenta di analizzarsi attraverso gli eventi che gli accadono. Ho apprezzato molto il modo in cui Le cose che restano affronta temi come l’omosessualità, il razzismo, l’Italia attuale, senza quel filtro che rende spesso i prodotti italiani così patinati, “educati”. La televisione in particolare tende a viziare il pubblico.  Credo invece che il pubblico debba essere scosso e indotto a riflettere. Un pubblico intelligente riconosce l’onestà d’un regista, d’un autore, d’un attore, che raccontano una storia in maniera non filtrata. Per me “le cose che restano” sono da una parte il dolore iniziale per la perdita del fratello, e dall’altra la speranza, la forza di andare avanti malgrado tutto. Senza questa forza non si potrebbe neppure raccontare una storia del genere.

 

 

Alessandro Sperduti – Lorenzo
Ho iniziato a recitare nel 1998, a 9 anni, con Il tesoro di Damasco, una storia fantasy per Mediaset girata in mezzo al deserto. Fin da piccolo avevo una passione per il cinema, per la tv. Ho fatto i primi provini quasi per gioco, grazie all’intervento di mia sorella, e dopo qualche mese mi hanno scelto per quel primo lavoro. Poi ho proseguito e spero che continui, mi piace tantissimo! Fare l’attore e studiare contemporaneamente a scuola è stato abbastanza tosto, però i professori mi hanno sempre aiutato. Finito il liceo mi sto dedicando full time al mestiere di attore, vorrei seguire una scuola di recitazione. In questi anni ho interpretato una quindicina di ruoli, tra grandi e piccoli, e ho fatto anche teatro a fianco di Rossella Falk.
Non so quanti altri attori abbia visto Gianluca Tavarelli prima di scegliere me per Le cose che restano. Mi sono subito affezionato alla mia parte perché è scritta in modo pazzesco. Già nel provino si rivelava il carattere del mio personaggio che è molto pieno di vita, espansivo, positivo. Ho girato circa otto giorni, poiché Lorenzo compare solo nel prologo.  Era la prima volta che mi capitava la morte d’un personaggio, e già leggendo la sceneggiatura ero rimasto scioccato. Ho tentato di rendere al meglio la sua grande gioia di vivere. Per me è stata davvero un’esperienza fantastica prendere parte a un cast così importante, una fortuna poter imparare da loro. È un piccolo grande ruolo che esercita un’influenza in tutto l’arco della vicenda. Le cose che restano secondo me rappresenta molto bene il nostro presente, affronta molte tematiche attuali con naturalezza e con partecipazione.

 

 

 

 

 

OPINIONE DI DEGOFFRO

“Le cose che restano” (il titolo deriva da una poesia di Emily Dickinson) è uno dei lavori più appassionanti, brucianti ed intensi che siano stati prodotti negli ultimi anni dalla tv di stato e avrebbe davvero meritato una distribuzione cinematografica. 

 

Il regista asciuga la densa e ricca materia narrativa (perdita di un figlio, sbarchi di clandestini, integrazione, elaborazione del lutto, separazioni, amori gay, malattia, reduci di guerra, aborto, gestione della famiglia), la alleggerisce con momenti leggeri, affronta con pudore e straordinaria umanità, senza complessi o sciocchi stereotipi argomenti spesso considerati scomodi ma che sempre più fanno parte della vita di tutti i giorni, confeziona un sincero e delicato affresco familiare di struggente coinvolgimento e di vibrante vitalità, regala alcune sequenze splendide per la naturalezza con cui sanno cogliere la quotidiana semplicità e la malinconica bellezza della vita, trova una chiusa convincente, realistica e non necessariamente felice per tutti i suoi personaggi. Non vorresti mai staccarti dalle vicende che coinvolgono la famiglia Giordani, te ne senti parte, le vivi sulla tua pelle anche perché raramente capita di incontrare sullo schermo personaggi così autentici, sinceri e familiari. Già, perché un altro punto di forza di questa magnifica opera scritta da Sandro Petraglia e Stefano Rulli (all’altezza di “La meglio gioventù” e terza parte di un'ideale trilogia iniziata con "La vita che verrà" di Pasquale Pozzessere) sono i caratteri, tutti pennellati con dolcezza, pudore ed intelligenza, senza eccessi, caricature, abbellimenti. 

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