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Parlare del nostro mondo, della società nella quale viviamo, partendo da contesti apparentemente ristrettissimi: un appartamento medio-borghese a New York come ce ne sono tanti, oppure una lussuosa limousine (ancora a New York, precisamente Manhattan) dotata di sofisticati terminali in costante contatto con i mercati internazionali per sondarne gli andamenti. È questo ciò che alcune storie sono in grado di raccontarci. È questo ciò che fanno due film molto interessanti: Carnage di Roman Pola?ski, e Cosmopolis di David Cronenberg. Entrambi sono adattamenti, il primo dell'opera teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza ed il secondo del romanzo omonimo dello scrittore post-moderno Don Delillo. Entrambi, attraverso un'apprezzabile unità di tempo luogo e azione, fotografano un'esistenza: la nostra. I registi seguono i personaggi quasi fossero delle cavie da laboratorio e le vicende assumono, in virtù di un certo “distacco” narrativo, l'aspetto di strani ed inconsueti esperimenti. L'apparente freddezza del discorso, in questo caso (come in altri, d'altronde) non appare tuttavia come un difetto, bensì come una circostanza quasi inevitabile, per certi aspetti connaturata all'oggetto che si vuole esaminare. Una distanza addirittura coinvolgente, nella misura in cui è in grado di porre lo spettatore in uno stato di singolare ubiquità: al di qua ed al di là dello schermo. Noi siamo ciò che guardiamo. Tante volte il cinema ci pone di fronte a noi stessi, e con questi due film tale facoltà quasi sovrannaturale raggiunge livelli di grande efficacia.

I presupposti che conducono alle cortocircuitanti conseguenze appaiono sempre (fintamente) casuali ed insignificanti: una lite fra due ragazzini, l'arrivo in città del Presidente, oppure l'oscillazione dello yen. Nulla di straordinario. Nessuna dichiarazione di guerra o invasione aliena. La razza umana è (o sembra?) ancora al sicuro. Eppure l'ordinario ha la straordinaria facoltà di portare in evidenza la rigidità della struttura (invisibile e inudibile) che ci siamo costruiti diligentemente intorno. L'Era Tecnologica (carica di ciò che l'ha preceduta) sembra aver partorito una lucida e scintillante e confortevole libertà/coartante. Benessere e conoscenza, cose di per sé positive, sembrano marciare alla guida di una lunga e variegata colonna di follie assortite. In entrambi film, con modalità diverse, l'accento viene posto su un aspetto ben noto della natura umana: la volontà di controllo (all'apparenza così incessante ed auto-replicantesi da quasi confondersi con la wille zur macht di nietzschiana memoria). I bambini, come lo yen, a volte sfuggono al controllo, e generano ansie. Costringono a spiacevoli confronti dettati dalla responsabilità. Confronti con gli altri e con noi stessi. Le tensioni costringono a spiacevoli urti con le solide sbarre della gabbia (cellulari inopportuni perennemente squillanti in nome della sacra e perenne reperibilità, l'inesorabile – atroce? – precisione dei computer sempre davanti agli occhi), e gli urti con le sbarre finiscono spesso per condurre a tentativi di evasione/rottura, a volte ragionati, più spesso inconsapevoli. E così ci si ubriaca, finendo per vomitarsi (anche letteralmente) reciprocamente in faccia l'inesprimibile, oppure si decide senza motivo apparente di andare a tagliarci i capelli dall'altro capo della città, a costo di passare con la nostra costosa limousine attraverso pericolose colonne di manifestanti anti-capitalisti. Forse perché di tutti i feticci dei quali la nostra società è inzuppata fino al midollo, quello del potere/controllo (sulle cose, sulle persone, su Dio, il mondo e l'universo tutto) è in assoluto il più antico, logorante, longevo ed insinuante (addirittura retroattivo e coartante nei confronti del soggetto schiavo della propria volontà di dominio), tanto da essere rintracciabile nelle motivazioni più arcaiche e profonde del linguaggio umano, che nomina le cose per farle sue. Non a caso, sia il film di Polanski che quello di Cronenberg presentano situazioni all'interno delle quali i personaggi mostrano l'ansia (prettamente virile/maschile e quindi prestazionale) di DOVERE chiamare sempre le cose con IL LORO NOME ESATTO. Una definizione imprecisa non è solo indizio di banale pressapochismo (o di una ancor più banale leggerezza discorsiva), ma è una vera e propria debolezza/mancanza (tipicamente femminile nell'ottica di una società, a dispetto dei viaggi spaziali e della fisica quantistica, ancora fortemente intrisa di un maschilismo quasi medioevale).

Chiusi nei nostri meta-box, nei nostri microcosmi ogni giorno più ultra-tecnologici e stereoscopici, ci illudiamo di possedere la mappa del mondo, in folle attesa che “il topo divenga l'unità monetaria”.

Man In The Box

I'm the man in the box
Buried in my shit
Won't you come and save me, save me

Feed my eyes, can you sew them shut?
Jesus Christ, deny your maker
He who tries, will be wasted
Feed my eyes now you've sewn them shut

I'm the dog who gets beat
Shove my nose in shit
Won't you come and save me, save me

Feed my eyes, can you sew them shut?
Jesus Christ, deny your maker
He who tries, will be wasted
Feed my eyes now you've sewn them shut

Feed my eyes, can you sew them shut?
Jesus Christ, deny your maker
He who tries, will be wasted
Feed my eyes now you've sewn them shut

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