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Urlatori alla sbarra

Regia di Lucio Fulci vedi scheda film

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La recensione su Urlatori alla sbarra

di Aquilant
6 stelle

Che la nostra epoca sia caratterizzata da una sorta di “revisionismo mediatico”, termine molto caro ai tombaroli che scavano solleciti nel cinema “mondezza” del passato, non è mistero per nessuno. E’ già partita da un pezzo la corsa al recupero di modelli cinematografici non propriamente esaltanti e gratificati all’uopo del termine inglese “trash” col preciso intendimento di conferire loro una patina di dignità artistica giocando sull’uso di un termine apparentemente (dis)pregiativo ma in realtà sinistramente (ri)qualificante.
Purtroppo a creare ulteriore confusione in questo campo contribuisce perfino Walter Veltroni, primo cittadino della nostra città di Roma, nello scrivere testualmente che “Il titolo di questo film (riferendosi all’Ubalda) è diventato un pezzo di storia italiana. Lei è un’intensa Edwige Fenech, un personaggio alla Truffaut”. E addirittura patetico appare il critica Marco Giusti, nella sua appassionata esaltazione del trash: “W la foca: film commovente nel suo essere un’opera tarda e definitiva su un genere ormai scomparso.” Roba da spingere alle lacrime anche un individuo dal cuore di pietra!
Ma venendo all’argomento principale dopo un inutile giro di parole dettate da uno sfogo tanto impellente quanto (im)motivato, il presente film “Urlatori alla sbarra”, non ancora soggetto a trattamento revisionistico, appare opera più che mai dignitosa, rappresentativa del particolare gusto di un’epoca, seppure del tutto irrilevante dal punto di vista della trama. Specie poi se confrontata con la notevole mole di pattume (definirla spazzatura, termine alla moda, sarebbe come avvallare il suo continuo riciclaggio) che ci sommerge letteralmente da cima a fondo e che svariati critici di casa nostra, dal pulpito di un mensile fotografico molto trendy, stanno appunto riqualificando, abbinandola ad una sciagurata operazione di recupero culturale quale “patrimonio del nostro cinema italiano”.
La pellicola non a nulla a che vedere naturalmente con le varie “foche”, “infermiere”, “ubalde”,”soldatesse”, “liceali” e “coscelunghe”, che fanno un indesiderato capolino dalle edicole nostrane, ma va considerata come un obsolescente ma significativo documento satirico sulla prevaricazione e l’ostracismo operati per lungo tempo dalla RAI nei confronti della “new wave” vocale italiota che al principio degli anni “60” portò un’aria nuova nella “cucina” della musica nostrana spazzando via inesorabilmente la cosiddetta canzone nazionalpopolare all’italiana, vera e propria mucillagine vocale con immediato effetto soporifero, controindicata agli appassionati delle sette note a causa di indesiderati stati irritativo-infiammatori associati a dolori del padiglione auricolare e del condotto uditivo esterno con ripercussioni sul cavo del timpano.
E fa davvero piacere ammirare alcuni grandi artisti come Adriano Celentano, Mina e Chet Baker ai loro esordi, oltre ad altri interpreti sommersi dalla polvere del tempo quali Joe Sentieri, Umberto Bindi e Gianni Meccia. Il regista Lucio Fulci, per nostra fortuna non ancora alle prese con zombi, diavoli, squartatori e morti viventi, conscio della totale inconsistenza della trama, ha la geniale intuizione di buttarla quasi completamente in musica (con Adriano Celentano che finge di suonare sempre sullo stesso accordo) e si può dire che la sua scommessa sia parzialmente riuscita. Ma un atroce presagio sfiora ormai le nostre menti scaltrite. A quando l’operazione di revisionismo mediatico nei confronti del compianto Ettore Fizzarotti?




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