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Il nome del figlio

Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film

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La recensione su Il nome del figlio

di amandagriss
4 stelle

 

Annunciato come il Carnage all’amatriciana, l’ultimo film della Archibugi non mantiene la promessa, orgogliosamente sbandierata, del gioco al massacro tra adulti senzienti avvelenati-incattiviti-frustrati.

Ma non possiamo imputare alla regista di Questione di cuore tutti i torti del caso visto che il film è solo il remake di un lungometraggio d’oltralpe adattamento di un testo teatrale (sempre d’oltralpe), ma resta indubbio che ci abbia messo (pesantemente) del suo, rimaneggiando, seppur nel decoroso rispetto del copione originale, la sceneggiatura per farla meglio aderire all’aria che tira in Italia.

Dove a prevalere è una mentalità fondamentalmente tradizionalista (conservatrice), stagnante, retrograda, incartapecorita, nascosta dietro quella sua maschera(ta) di emancipazione ostentata con tanta disinvoltura e naturalezza. Che la porta a condannare ogni forma di pregiudizio e discriminazione, ad inneggiare al confronto civile, al rispetto verso l’altro, all’indulgenza, alla comprensione, alla ragionevolezza. Sempre con grande disponibilità, tanti sorrisi e infinita calma.

A questo punto il fucile caricato dalla Archibugi non può non colpire e fare centro, penseremo noi, riducendo a brandelli l’ipocrisia imperante delle nostre esistenze asfittiche, soprattutto quando nel mirino finiscono vizi, vezzi e virtù dell’italiano medio contemporaneo, reso superbamente in tutte, o quasi, le sue sfaccettature da un piccolo affiatato gruppo appartenente alla crème del made in italy attoriale oggi.

Spicca un Alessandro Gassman ‘mattatore’, a trascinare nel suo scherzo finito male (si fa per dire) comprimari dalle facce giuste e dalle cesellate emotività, capacissimi di sostenere pesanti primi piani e di combattere una guerra verbale che, crediamo (ad un certo punto speriamo, visto lo scorrere inesorabile dei minuti mentre ancora nessun proiettile viene sparato), profilarsi imperdibile e soprattutto gustosissimo.

Purtroppo, il fucile s’inceppa.

Lo scontro a fuoco vive soltanto sulla carta (e nella testa della regista).

Per di più le cartucce, lo capiamo strada facendo, sono caricate a salve.

Non facciamo che assistere, inerti, ad un grand-guignol in versione salottiera, ad un azzannarsi alla gola con correttezza, stando ben attenti a non macchiare il pavimento in legno pregiato.

Quelle che ci vengono rifilate come spie di drammi di portata esistenziale non sono che irrilevanti scaramucce nel quotidiano tranquillo fluire di queste esistenze beate, prigioniere della noia e della paranoia, in preda a finte ansie e altrettante finte paure, la cui amarezza non è mai veramente amara, le cui lacrime non sono mai veramente acri e salate;

infognate senza scampo, povere loro, nel benessere nonostante tutto,

protette dalla sicurezza di un focolare accogliente e di una ricca tavola sempre imbandita nonostante tutto,

rassicurate dal sacrosanto happy end che tutti i cocci magicamente riassembla nonostante tutto.

Immagazziniamo con crescente irritazione una sequela di pseudo brucianti rivelazioni -prevedibilissime- di segreti e bugie a dir poco inconfessabili (“la prugna” !?), buttati lì a casaccio senza seguire un ordine logico che permetta alla fasulla carneficina verbale di crescere in pathos e cattiveria devastante fino alla sfinimento, mentale e fisico.

L’incedere è piatto, il corpo a corpo abortito come uno starnuto potenzialmente esplosivo, il 'disvelamento' totalmente esangue, anestetizzato, che mai, nemmeno una volta, ci pensa per davvero ad affondare il coltello nella piaga e rigirarcelo per bene, che mai è capace di rendersi credibile.

Ma questo vomitarsi addosso atroci (si fa per dire) verità, quanto può pesare sul roseo futuro di codesta gente che vive ad un metro da terra, che si vanta di essere originale e di permettersi di mostrarsi normale, se alla fine prevalgono sempre e solo i buoni sentimenti?

se, come con un colpo di spugna, viene lavato via il rancore(?), il disappunto(?), l’insofferenza(?) l’invidia(?), l’inadeguatezza(?) covati per un’intera esistenza dal gruppetto rigorosamente a numero chiuso di amici fraterni da 40 anni?

Pensavamo di vedere sgorgare il sangue, a fiotti, e di assaporare un pizzico di viscerale autenticità che non fosse quella preconfezionata direttamente dalla coatta verace alias Micaela Ramazzotti, bellissima, anche col mascara sbavato.

Ma la Archibugi non ci rimane così, a bocca asciutta, sul finale un momento sincero e sanguigno (fin troppo) in questa farsa educata/edulcorata ce lo concede, segmenti di cinema-verità secondo lei necessari, ma dei quali avremmo fatto sinceramente a meno.

Ma perché, allora, tale scelta ‘estrema’?

 -per farsi perdonare la resa posticcia della sua ultima fatica

 -per ricordarci che il futuro non è scritto, benché penda sulle nostre teste come una spada di Damocle

 -perché (monito immancabile) la speranza non deve abbandonarci nonostante tutto.

O solo per inaugurare la carriera (affinché sia lunga e costellata di successi) del nuovo nastro nascente del cinema che conta.

 

Dov’è finita l’autrice di Verso sera, L’albero delle pere, Mignon è partita?

almeno all’epoca, nella finzione di piccole storie raccontate col cuore, ci sembrava autentica.

 

Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassman, Valeria Golino, Rocco Papaleo

Il nome del figlio (2015): Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassman, Valeria Golino, Rocco Papaleo

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