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Killers

Regia di Kimo Stamboel, Timo Tjahjanto vedi scheda film

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La recensione su Killers

di pazuzu
5 stelle

Hanno impiegato cinque anni i Mo Brothers, al secolo Kimo Stamboel e Timo Tjahjanto, per dare alla luce Killers, il loro secondo lungometraggio. A quel Macabre (Rumah Dara) che nel 2009 li lanciò tra gli astri nascenti del cinema più violento ed estremo, erano finora seguiti soltanto un paio di corti, L is for Libido e Safe Haven, entrambi a firma del solo Tjahjanto (con Stamboel in veste di semplice produttore nel secondo), ed entrambi annoverabili tra i segmenti migliori di film a episodi altrimenti tutt'altro che memorabili (The ABCs of Death e V/H/S/2). Accompagnato dunque da aspettative piuttosto alte, favorite dalla strombazzata presenza di Gareth Evans (autore del bell'action The Raid) come produttore esecutivo, il nuovo lavoro della coppia di registi indonesiani finisce però per disattenderle, candidandosi a divenire, anziché il mezzo della loro consacrazione, il manifesto di quelli che paiono essere i loro limiti. Il tentativo compiuto dai due è legittimo e ambizioso - dare maggior spessore al loro gore calandolo in una struttura nella quale lo slasher slitta verso il thriller psicologico con velleità da action noir: ma è un tentativo fallito.

Abbandonato il programmatico schematismo che nelle opere precedenti sottintendeva l'identificazione chiara e stereotipata dei buoni come vittime e dei cattivi come aguzzini, Stamboel e Tjahjanto scelgono come protagonista un buono che si trasforma in aguzzino e cerca di fare dei suoi cattivi le proprie vittime, affiancandolo ad un antagonista che invece risponde perfettamente allo stereotipo negativo. Sono Bayu, un giornalista di Giacarta frustrato, con vita lavorativa e sentimentale in frantumi, e Nomura, un giovane tokyota laureato e benestante ma funestato durante l'infanzia dalle morti violente dei genitori e della sorellina: il primo è divenuto suo malgrado l'assassino di due teppisti che lo stavano aggredendo armati; il secondo uccide per diletto, avendo come principale hobby quello di adescare belle ragazze, torturarle fino alla morte, ed imprimerne il calvario sulla propria videocamera per poi postarlo sul web. E proprio il web è il terreno del loro primo incontro, che avviene quando Nomura scopre che, prendendo esempio dai suoi, qualcun altro ha pubblicato il video di un'agonia: quel qualcuno è Bayu, e l'agonia è quella dei due teppisti. Individuato in lui il proprio fan numero uno, Nomura lo contatta per convincerlo della bontà del proprio motto: «il primo omicidio piace, i successivi si amano».

Basta già leggere qualche riga di sinossi, per intuire quanto centrale sia il ruolo dell'interazione tra i due caratteri principali nell'economia della pellicola. Peccato però, che il peggior difetto di Killers sia proprio l'incapacità di rendere l'intreccio tra le loro storie interessante, convincente, compiuto: l'affinità elettiva che dovrebbe avvicinarli, la molla che dovrebbe far scattare il meccanismo dell'emulazione, semplicemente, mancano; così come assente per lunghi tratti è il senso del grottesco, relegato ai margini tanto da rimanere fine a sé stesso, quindi velleitario. E se da un lato la fotografia pulita di Gunnar Nimpuno (già eccellente in Modus Anomali di Joko Anwar) e le musiche robuste di Fajar Yuskema e Aria Prayogi covadiuvano al meglio il lavoro dei registi nelle scene a loro notoriamente più congeniali, ovvero quelle nelle quali (mediamente) il sangue zampilla e le ossa si spezzano, a latitare è la sceneggiatura dello stesso Tjahjanto (da un soggetto di Takuji Ushiyama), che pur prendendosi tutto il tempo - 137 minuti - gira attorno ai personaggi senza riuscire ad esplorarne la psiche, e va in affanno ogni volta che la violenza esibita si ferma per dar spazio al racconto.
Ad uscirne fuori è un film dall'anima divisa, involuto e privo di una direzione chiara, nel quale le immagini potenti ci sono ma finiscono narcotizzate tra lunghe pause, e nel quale una tematica dal buon potenziale, quale la viralità del male ai tempi di internet, pare messa lì più che altro come pretesto per affogare una serie di ammazzamenti di gran presa estetica in un magma di pseudo introspezione posticcia.

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