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Una scuola per Malia

Regia di Daniel Barnz vedi scheda film

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La recensione su Una scuola per Malia

di OGM
6 stelle

Jamie e Nona non sono disposte a recedere. Nemmeno di un passo. Perché in gioco c’è il destino dei loro figli: Malia, che soffre di dislessia, e Cody, che un trauma cranico ha lasciato con seri disturbi dell’apprendimento. La scuola elementare John Adams è situata in un quartiere difficile, ed i bambini che la frequentano hanno altissime probabilità di restare pressoché  analfabeti, e di finire, prima o poi, nella cella di una prigione. Gli insegnanti, che sono del tutto demotivati, si rendono pienamente conto del problema, ma non hanno i mezzi per affrontarlo. E poi c’è il sindacato che rema contro: ogni cambiamento – come, ad esempio, la rifondazione dell’istituto su iniziativa dei genitori – potrebbe mettere a serio rischio i posti di lavoro. Ma Jamie e Nona – una mamma sola e una maestra di colore – andranno fino in fondo. Il film di Daniel Barnz, ispirato ad una vicenda reale, è interamente costruito intorno alla loro tenacia, soprattutto quella della prima della due donne, una Maggie Gyllenhaal dallo sguardo vivido e quasi allucinato, che si direbbe fisso sull’utopica visione di un futuro inverosimilmente radioso, e dunque lontano anni luce dall’amara realtà in cui è costretta a vivere. Tra il suo impiego diurno – un posto di commessa presso una rivendita di auto – e quello serale – il lavoro come barista in un locale notturno – Jamie trova comunque il tempo per sognare e credere con tutta l’anima a ciò che gli altri considerano impossibile: assumere il controllo della situazione, rivoluzionare il piano educativo, fare in modo che un vecchio meccanismo rugginoso inizi finalmente a funzionare e tanti ragazzini  possano davvero imparare a leggere, scrivere, far di conto, e magari, un giorno, studiare all’università. Conosciamo bene il tono vagamente eroico e celebrativo delle battaglie morali made in USA, delle sfide di uno contro tutti che si concludono, sul filo del rasoio, con la consueta clamorosa vittoria della lungimiranza sulla miopia. Sono le favole a lieto fine della terra delle infinite opportunità, in cui gli ultimi devono assolutamente diventare i primi, perché altrimenti a fallire è l’intera società. La forza trascinante di questo meraviglioso principio, troppe volte riproposto sullo schermo come un inconfondibile segno di democrazia e spirito civico, ha però ormai perso la sua carica persuasiva: l’effetto si può dire degradato al rango di canone estetico, marchio distintivo di un genere cinematografico che confeziona  parabole consolatorie nella nobile veste del dramma. È il moderno romanticismo d’oltreoceano, che esalta i successi e sottace le sconfitte, ed eterna i proclami ideali dei padri fondatori facendoli risuonare tanto nelle aule dei tribunali delle metropoli quanto nelle salette comuni delle cittadine di provincia.  Ci si può cascare oppure no. In ogni caso, gradire un film come questo significa sapersi abbandonare alla seduzione dell’epica guerresca, con quell’antica retorica del miracolo che si adatta ai versi sciolti del realismo contemporaneo esattamente come, un tempo, si intrecciava con la metrica dei carmi. Naturalmente, nulla vieta di chiudere gli occhi e godersi la potente illusione. A patto di dimenticare l’incosciente leggerezza di un discorso che affronta una questione complessa e delicata, come quella della pedagogia, senza mai concretamente entrare in argomento.

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