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Carré blanc

Regia di Jean-Baptiste Léonetti vedi scheda film

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La recensione su Carré blanc

di OGM
6 stelle

Cinico, rarefatto, minimalista. Crudele senza enfasi, con una violenza che risponde ad una sorta di necessità simulata. Il futuro del mondo è un sistema che applica la selezione naturale con puntuale scientificità. L’abbandono è lo strumento che rende forti ed imbattibili: una macchina in grado di generare mostri, capaci di moltiplicare l’orrore per conservare l’efficienza produttiva della specie. Un ragazzo, cresciuto dentro i mastodontici blocchi di cemento di un’anonima periferia, tenta il suicidio impiccandosi; i suoi tutori lo cureranno insegnandoli il gusto di torturare ed uccidere. Quell’uomo diventerà selezionatore del personale presso un’azienda di cui non si conosce l’attività, ma che funziona in maniera ineccepibile. La prima ruota di quell’ingranaggio  perfetto è l’addetto al garage, che accoglie i dipendenti con un sorriso smaltato di bianco da cartellone pubblicitario. È il preambolo ad una cervellotica finzione, che non cessa di inventare nuovi giochi per poter continuare ad essere vincente. I candidati all’assunzione vengono sottoposti a test fisicamente pericolosi, nonché basati su una logica estremamente insidiosa. La mancanza di acume si paga duramente, anche con la vita. I più accorti sopravvivono, mentre periscono coloro che non pensano e che perdono il controllo. Le emozioni sono perdenti, come lo è, sopra ogni cosa, la generosità dettata dall’amore. Gli individui dominanti sono freddi e sterili. Di fronte ai bambini non provano tenerezza né pietà, e magari decidono di non procreare. Per loro, il meccanismo deve procedere indisturbato, senza essere compromesso dalla labilità dei sentimenti. Tutto deve rimanere pura geometria, e razionalità privata di ogni convenzione di comodo.  In questo film si parla poco, come per evitare il formarsi dei luoghi comuni e dei sottintesi che impoveriscono il linguaggio, rendendolo indiretto ed allusivo. La parola è fatta soltanto per raccogliere l’originale distillato delle idee: quello genuino, chiaro come il cristallo, che non conosce scorciatoie e colpisce con una traiettoria zigazagante, aggirando i capisaldi dei pensieri preconfezionati. Il genio spara i suoi proiettili con parsimonia, centrando bene l’obiettivo, senza inutili affanni creati apposta per riempire il vuoto. Bisogna che il nulla resti lì, a fare da cassa di risonanza alla volontà di non cambiare, di mantenere vivo quell’ideale di cui si è convinti di essere l’incarnazione. In questo modo si giunge al culmine dell’utopia, dopo il quale si può solamente scendere. Andare giù può sembrare una follia, ma è l’unico modo per sentirsi nuovamente uomini, imperfetti e imprevedibili, benignamente remissivi anziché vittoriosi ad ogni costo. Il protagonista di questa storia è il modello del potere che rischia di soccombere alla solitudine, alla sua invariabile superiorità che lo isola dai suoi simili. Intorno alla cima si estende l’abisso, e basta un fare un passo per precipitarvi. Questo film si muove prudentemente sul ciglio del burrone, che è anche il sottile crinale di separazione tra la vera felicità e la cupa ebbrezza di essere qualcuno: un importante anello della catena, la cui estremità si perde in cielo, in  altezze stratosferiche. Si salta dalla finestra mentre lassù c’è un senso globale che sfugge, e che tuona dalla radio, negli annunci diffusi per strada, sottoforma di un rumore di sottofondo a cui nessuno fa più caso. Questo film, che, con certi effetti audiovisivi sfiora le suggestioni astrattiste di una videoinstallazione, ritrae la desolazione di un’umanità giunta al dunque, arrivata al punto di divorare se stessa senza conoscerne la vera ragione. La trama manca, o è semplicemente fuori fuoco, perché questa storia, rinchiusa in un’atemporalità opaca ed ovattata, si mostra muta e spoglia per farsi vedere, non avendo più la voglia di raccontare. Carré blanc è lo spazio deserto che si è costretti a percorrere, dopo l’abbagliamento dell’istante in cui si è toccato il fondo. Ci si potrebbe scrivere qualcosa, anziché lasciare che ci impressioni con la sua inespressività. Basterebbe anche un piccolo segno sulla carta perché noi spettatori riuscissimo a trovare il modo di entrare, almeno per un poco, in quell’atmosfera soffocante, che, purtroppo, si rivela gelida e impenetrabile anche per noi.

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