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Il volto di un'altra

Regia di Pappi Corsicato vedi scheda film

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La recensione su Il volto di un'altra

di LorCio
7 stelle

Tra i pochi in questo Paese a potersi fregiare del titolo di autore, Pappi Corsicato ha la rara capacità di stupire e confondere, complici anche universi sicuramente ben poco affini con la cinematografia italiana contemporanea. O almeno superficialmente, perché a voler scavare le tematiche de Il volto di un’altra le abbiamo trovate in svariate pellicole recenti, come hanno già notato molti commentatori. Corsicato, però, ha la dote di lavorare in profondità sulla superficialità, di scagionare la mediocrità e lo squallore dalla loro cifra repulsiva, di sintetizzare in un’immagine (o almeno in un carosello di forme e colori) un’idea di cinema.

 

Rischiando sempre di cadere nel pericolo dell’esercizio di stile, sparigliando continuamente il tavolo con nuove carte (l’inizio e la fine in clinica sono quasi felliniani), sfidando i detrattori che lo vogliono ingabbiato nell’usurata etichetta di Almodovar italiano (per fortuna non si è molto insistito sulle analogie, anche quelle, superficiali con La pelle che abito), il buon Pappi va avanti per la sua strada contaminando sacro (la suora caposala di Iaia Forte) e profano (sempre la suora, affarista e dal tragico destino: ottima Iaia Forte), ricerca della bellezza ideale (il programmatico nome di Laura Chiatti) e sfruttamento di un ideale di bellezza (Chiatti, in quanto Bella, si vende come showgirl ma anche come protagonista del suo show sulla chirurgia estetica, cioè sull’ossessione di una bellezza in quanto perfezione), corpi e visi esteticamente impeccabili (Chiatti, Alessandro Preziosi, Lino Guanciale) e ricoverati fasciati e deturpati (la parrucca dell’epica Rosalina Neri che se ne vola via nel finale), bisturi e cessi, la meravigliosa immensità del Trentino (ah, le film commission!) e la merda che ci coprirà tutti indistintamente.

 

Al di là dell’estetica, Il volto di un’altra è un’altra occasione per riflettere sul mefistofelico potere dell’oppio dei popoli massmediatico, incarnato non tanto dalla morbosità di fotografi e televisioni quanto da quei camper accampati di fronte all’ingresso della clinica. Niente di nuovo, si dirà, ed è vero, tanto è vero che le parti in cui il film non funziona del tutto sono nella rappresentazione di questo sottobosco variegato (un po’ scontato, malgrado la genialata della maschera di Bella come in un Carnevale qualunque) e nella repentina e sospetta illuminazione sulla via di Damasco di Bella.

 

Ma è lo sguardo ad essere importante, perché insolito e personale, sciolto e disinvolto, e di fronte a battute come “preferirei donare un rene” (Chiatti a Preziosi dopo la richiesta di indossare delle ballerine anziché tacchi) o “sa, il dottore non sopporta la vista del sangue” (da cui il bianco e nero straniante nella sala operatoria) si dovrebbe solo fare un applauso alla voglia di osare e sovvertire di Corsicato. Che, per inciso, dirige benissimo Preziosi, in quello che è probabilmente il miglior ruolo finora sostenuto al cinema dal conte Ristori (quel ciuffo fulvo che diventa sempre più in alto è una grande intuizione), e usa in maniera funzionale una Chiatti in bilico tra autoparodia e cagneria.

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