La recensione su Il sesso aggiunto

La poesia si può perdere in un bicchiere d’acqua sporca. È così che il monologo teatrale si ritrova spaesato in mezzo alla melma di una drammaturgia troppo esplicita ed eccessivamente popolare, che mescola il didascalismo disinibito della terapia di gruppo con il descrittivismo di facile consumo da romanzo per la tivù.  Francesco Antonio Castaldo scrive davvero bene. Peccato che non sappia costruire, intorno alle sue preziose gocce di letteratura, un contesto narrativo degno di accoglierle.  Il suo personaggio, il trentenne Alan, è la figura chiave di un mondo di tossici filosofeggianti, che risulta inverosimile per mancanza di naturalezza. La droga ed i suoi adepti si mettono in posa, intorno a quel feticcio maledetto che diventa un amico, mentre, nella loro realtà, potrebbe essere adorato soltanto come un sordido amante. È impossibile che, fra tanti, solo lui, Alan, capisca la vertiginosa profondità di quella seduzione. Per gli altri, questa non può essere, semplicemente, una cattiva e piacevole abitudine da coltivare in compagnia, in cui si ricade, ogni volta, per un eccesso di leggerezza. La percezione dell’abisso diviene privilegio di un unico individuo, e non si sa perché. L’universo si spacca in due, esattamente come il tono ed il linguaggio in cui esso ci viene raccontato; il principio attivo è racchiuso dentro un eccipiente dolciastro, così che la medicina finisce per sembrare una caramella. Veleno e miele si diluiscono in una miscela andante di sostanze dal sapore familiare, che sommerge il gusto originale di quel pensiero isolato ma universale, carico di emozioni contrastanti, di amore per la vita e di disperazione per la sua vanità. Tempo fa ho letto una scritta su un  muro: Amare qualcuno è il desiderio di amare i propri desideri. E l’amore è quell’invenzione dell’anima che nobilita il bene più vero: il piacere dei sensi. Credo che intendesse dire che … l’altra persona è come uno specchio, dove facciamo riflettere quei desideri, anche quelli più inconsci, che desideriamo amare. […] Ognuno di noi, inconsciamente, non accetta di essere schiavo del sesso […] e inconsapevolmente lo nobilita, mischiandoci insieme i sentimenti. È una patologia, una malattia della mente, e gli uomini, senza saperlo, si raccontano una bugia.  Alan lo dice alla sua fidanzata. Non è nella tua natura di animale che mi hai amato per la prima volta. Ma quando il tuo viso, con umiltà di bambina, è entrato nei miei occhi ancora acerbi, hai conosciuto l’amore. L’amore che fa vivere le madri spietate ed innocenti, per dare ai loro figli la sopravvivenza, l’amore che fa schiavo ogni figlio, la schiavitù da cui mi hai liberato, col tuo amore. Il tuo amore per sempre vergine, a cui chiedo perdono.  Alan lo scrive alla madre. Sono arrivato al punto che più mi separa da me, e non so più vedermi. Mi sono così estraneo, che nemmeno riesco a sentirmi solo. Quanto è invisibile, adesso, il mio Dio. Alan lo dice a se stesso. Il resto del mondo risponde con la banalità. Forse è soltanto un caso, forse no. Il contrasto è stridente,  ingiustificato, e, se davvero è voluto, è un atto di mera crudeltà, compiuto dall’autore ai danni della sua creatura. Il sesso aggiunto avrebbe potuto (e dovuto) essere altro; bastava seguire la continuità della parola, il flusso della logica, il colore omogeneo del buio. Regia e sceneggiatura hanno invece preferito assecondare i mutevoli umori del grande pubblico, che ama essere servito con pietanze variegate. Frullando gli ingredienti la noia si rompe; e al suo posto arriva, trionfante, il cupo ronzio di una maldestra disarmonia.