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Hereafter

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Hereafter

di laulilla
8 stelle

Qualche considerazione su un film che, interrogandosi sulla vita e sulla morte, potentemente ci aiuta a vivere.

Gli affrettati giudizi non del tutto positivi che ne avevano accompagnato l’uscita in sala nel 2011 mi rendevano diffidente ma anche curiosa nei confronti di questo film, cosìcché fui tra le prime persone a vederlo e ne fui piacevolmente sorpresa.

 

Clint, infatti, lungi dall’assecondare le follie del misticismo paranormale, impegnato a indagare “scientificamente” sull’aldilà, aveva diretto uno dei più convincenti inviti ad accettare, razionalmente, il bene prezioso della vita qui e ora, nella piena coscienza che non solo non dipende da noi né il suo improvviso interrompersi, né il dolore o l'angoscioso senso di colpa, per la perdita dei nostri cari, ma che l’inevitabile interrogarsi sulla vita e sulla morte non può coincidere con la ricerca di prove circa l’esistenza di un’altra vita, oltre questa.

Ogni deriva falsamente consolatoria non ci risarcisce del lutto che portiamo nel cuore: alle ragioni del cuore, invece, sarà bene riferirsi nella nostra inevitabile ricerca di senso, fondamentale per il superamento dello stesso lutto.

 

 

Questa premessa ci aiuta a comprendere la scena, atroce, ma di grandissima pregnanza metaforica, del piccolo Marcus (George Mc Laren che, sopravvissuto al proprio gemello Jason (Frankie Mc Laren), si libera, malvolentieri, del berretto che era appartenuto al fratellino. Non si può chiedere a chi non lo ha mai provato, di penetrare nel significato profondo del liberarsi di malavoglia di oggetti consacrati alla memoria di chi ci ha lasciati, eppure a mio avviso questa scena contiene la chiave interpretativa dell’intero film.

C’è anche un’altra scena, per me straordinaria e memorabile che ci aiuta a capire il film: gli allievi del corso di cucina possono gustare, solo bendati, gli ingredienti di certi piatti. La benda, l’oscurità che si deve produrre per apprezzare appieno la bontà e il gusto delle cose, non è che un invito a evitare di voler conoscere ciò che ci può rovinare la vita: chi, incautamente, prova a farlo, ne porterà le amare conseguenze, perché, in questo caso, si tratta di un sapere regressivo e subalterno.

Certo, la visione che complessivamente emerge dal film non è ottimistica, né consolante: la vita, che è soggetta a rischi inimmaginabili e del tutto casuali (lo tzunami), va vissuta e apprezzata sapendo che si tratta di una brevissima esperienza irripetibile al termine della quale non sappiamo né se esisterà qualche cosa, né se quelle che sono universalmente considerate visioni pre – morte possano in qualche misura promettere alcunché di plausibile o di reale.

Non sappiamo nulla, questo è il vero problema, e perciò dobbiamo trovare il coraggio di assaggiare al buio le esperienze dolci, amare, sapide, insipide che la vita ci presenterà; il resto è malattia e morbosa curiosità: il “dono” del giovane George (Matt Damon), che potrebbe essere una miniera di guadagno per lui, nasce da una malattia, provocata da un intervento umano, che avrebbe dovuto riportare il giovane in salute e anche questo, secondo me ha un significato evidentemente metaforico.

Che poi i protagonisti del film confluiscano tutti insieme a Londra, alla presentazione del libro di Marie (Cécile de France) e che quindi si trovino lì spinti, con motivazioni diverse, da un interesse comune, non credo costituisca un importante oggetto di indagine e di riflessione: è certo che, se i tre vorranno continuare a vivere dovranno pensare al loro futuro qui e ora, non “dopo”, perché il dopo, comunque si presenterà, non ha nulla davvero da comunicare ai vivi.

 

 

 

I sensitivi non sono buoni o cattivi, sono per lo più avidi sfruttatori del bisogno di rassicurazione di chi non ha il coraggio di vivere; George non continuerà a farlo, perché sa che dal dolore altrui non può nascere il gusto della vita; Marcus lo ha capito e, soprattutto ora che ha ritrovato la madre, non ha più bisogno di lui; si spera che anche Marie rinunci alle sue indagini per riuscire, anche lei finalmente, a vivere con serenità la sua esistenza.

 

 

Il film è bello, benissimo raccontato, pulito e classico nelle immagini, sufficientemente teso per mantenere viva l’attenzione e anche la commozione degli spettatori. Gli attori sono tutti molto bravi e diretti con mano fermissima (ma occorre dirlo?) da un Eastwood, allora solo ottantenne, più giovane che mai.

 

 

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