Espandi menu
cerca
Lebanon

Regia di Samuel Maoz vedi scheda film

Recensioni

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Lebanon

di spopola
8 stelle

Il film ha una forza quasi belluina che gli consente di raggiungere una dimensione che fa intuire il riferimento anche attualizzato a un dramma primario come quello di dover fare i conti con gli orrori della follia della guerra (di ogni guerra) oltre che con le dinamiche apparentemente incontrollabili che si sviluppano durante un combattimento.

“Sentivo il bisogno di liberarmi, di fare pace con il mio passato mettendo da parte il presunto eroismo e tutti i cliché che mi hanno fatto compagnia negli ultimi venti anni.  Lo scopo di tutto questo era riuscire finalmente a perdonarmi. Ho delle responsabilità che fanno parte del mio destino. Anche se non avevo altra scelta, non posso fare a meno di sentirmi responsabile. Per questo ho fatto Lebanon, ed ho sempre pensato, per le stesse ragioni, che Lebanon dovesse essere un film non politico, per riuscire così a parlare alla testa, al cuore e allo stomaco degli spettatori. (…) La genesi del film dipende interamente dall’idea alla base della sua realizzazione. L’uomo del carro armato sono io e volevo raccontare la mia esperienza, nei limiti della struttura narrativa del cinema classico. Non volevo che il pubblico conoscesse solo questa storia però, ma desideravo anche che la percepisse a livello sensoriale. In questo senso percezione e comprensione coincidono. Volevo prendere lo spettatore e metterlo al mio posto nel carro per farlo identificare con i personaggi. L’idea di Lebanon era quella di comunicare al pubblico un’esperienza in cui vedesse e conoscesse le stesse cose che vivono e conoscono i protagonisti. Questa era l’unica maniera per far capire che cosa abbiamo davvero vissuto in quei giorni.”  

Sono le parole che Samuel Maoz, all’indomani di Venezia, ha pronunciato nel corso di una intervista. E a guardare il risultato,  è davvero riuscito  nell’intento che si era prefisso, non solo – immagino - a riconciliarsi un poco con se stesso, ma anche a dare veramente il senso dell’orrore, di quell’orrore così claustrofobicamente devastante che assale lo spettatore meno distratto, suo malgrado e una volta tanto “parte attiva” e “consapevole” (responsabile) degli atti che si compiono e delle decisioni che si prendono in quelle tragiche circostanze,  perché a sua volta “imprigionato” dentro a quel carro, anche lui nell’inferno di  una guerra “senza senso” che non è mai né giusta né necessaria.

Lebanon non è assolutamente un film che vuol lanciare messaggi o proclami dunque: è semplicemente un’opera che fa percepire (perché ci riesce veramente) cos’è davvero la guerra, che trasmette il disorientamento e le lacerazioni di chi la pratica (o è costretto a farlo). “Colloca” per questo (sia pure virtualmente) anche lo spettatore dentro al carro armato insieme ai protagonisti della storia, lo fa affondare (naufragare) fisicamente insieme a loro fino a fargli perdere  l’orientamento della lucidità reattiva (ma non la capacità critica della ragione) dentro quel buio attanagliante che fa avvertire il peso della responsabilità di chi è stato lasciato solo a dover “scegliere”. Si è così immersi nella “melma” e nel degrado di una prostrazione insostenibile, che sembra persino di  avvertire quasi percettivamente finanche in sala, mescolato con  ”l’odore” acre della paura, il tanfo sudaticcio di quei corpi che sono effettivamente dentro alla vicenda, segregati “insieme” nello spazio angusto senza una guida certa, in quel dover considerare e vivere sulla propria pelle (anche la nostra) persino le conseguenze definite come gli inevitabili “effetti collaterali” determinati da ogni azione bellica sia offensiva che difensiva, non  fa poi molta differenza, e liquidati per questo con troppa superficiale disattenzione spesso sufficiente a mascherare la portata devastante della tragedia che si portano dietro, poiché la visione “obbligata” di quasi tutte le azioni attraverso il mirino della torretta, rende ineludibile e “personale” l’esperienza stessa anche per chi in effetti l’osserva poi dalla platea, comodamente appollaiato sulla sua poltrona.

Una precisa scelta stilistica dunque, quella operata dal regista, che non credo sia stata suggerita semplicemente da possibili indicazioni produttive in termini di finanziamenti al film atte a contenere il budget di spesa, come da qualche parte si è ipotizzato (che certamente potranno anche avere avuto il loro peso, ma non hanno definito in alcun modo il progetto) poiché risulta lampante quanto profondamente  le radici affondino nel terreno ubertoso della  “confessione” condivisa di chi vuole finalmente fare i conti con il suo passato, che cerca così di raccontarsi mettendo a nudo la coscienza, facendosi “rivivere” dentro quell’esperienza dolorosa per cercare non certamente una assoluzione, ma sicuramente la “comprensione” necessaria a contenere il senso opprimente della “colpa”. Questa a mio avviso la “fonte ispirativa” che a prescindere da ogni altra cosa,  ha mosso  in quella direzione la  sua mano, quale modalità “obbligata” per trasmettere l’angoscia, come se si partecipasse tutti insieme a una salvifica seduta di autoanalisi “indagativa” sulle proprie responsabilità indotte.

Non si può dunque paragonare il risultato a quello di una “specie di ambiguo videogioco” come ha fatto Eugenio Renzi, che su Ciak, definendo così il suo “pollice verso” scrive del film che “del videogioco ha tutte le pecche. In primo luogo, l’imbarazzante povertà drammatica. In secondo, la logica del tiro a bersaglio, del risultato, dello score. Da tutto questo fumo esce confermata la fesseria secondo cui quello israeliano sarebbe l’esercito più morale del mondo. Più morale di voi, che al posto  del buon cecchino, non avreste esitato a sparare.

Mi sembra davvero una analisi molto riduttiva, e nel contempo distruttivamente ingenerosa, che dal mio punto di vista però non rappresenta in alcun modo la realistica  definizione di ciò che passa invece  sullo schermo: è certamente vero  che il regista non esprime un giudizio di condanna esplicito verso il suo popolo e il suo esercito, ma non rinuncia per questo ad essere amaramente feroce  non solo verso la  sua, ma verso ogni esperienza di guerra, a qualunque titolo esplicata, considerandola come una delle più grandi ignominie della storia: “quando sei in guerra ti rendi conto di quelle cose terribili compiute e viste, che ti accompagneranno poi inesorabilmente negli anni a venire. (…) Questa è la mia storia e la mia verità, la mia versione dei fatti che deriva dalla mia esperienza e dai miei ricordi. Io ero lì e non è possibile barare. Certo, possiamo tentare di cercare dei colpevoli e provare a distinguerli dagli innocenti e dalle vittime, ma la realtà, vera e inequivocabile, è che in guerra il vero nemico e  il vero carnefice è la guerra stessa. Nessuno ha il controllo di una situazione del genere e, talora, sono le azioni delle vittime insieme alla paura, a originare anche involontariamente, ciò che accade in determinanti momenti. Il trucco di ogni guerra è di mettere in situazioni pericolose delle persone che reagiranno, uccidendo pur di riuscire a sopravvivere. Non è normale uccidere e la gente normale non uccide. In combattimento, invece, la stessa persona si sente costretta ad uccidere. In guerra si è guidati dagli istinti primari legati alla sopravvivenza contro i quali non riesci a ribellarti.” 

Sono ancora parole di Maoz dalle quali non credo sia possibile prescindere, quelle sopra riportate in corsivo. Dunque non è un problema di eserciti più o meno morali, né di considerare in negativo - come è stato anche fatto da qualcunaltro - che lui in ogni caso alla guerra c’è andato, l’ha fatta, e non può più deresponsabilizzare le sue azioni: il ravvedimento è quantomeno tardivo e “accomodante”. Si dimentica al riguardo forse che in Israele la leva è obbligatoria, e non ci si può sottrarre, anche se  in fondo nemmeno questo farebbe poi una vera e propria differenza: si compiono a volte azioni delle quali ci si pente,  atti che poi ci appaiono come abnormi perversioni inaccettabili, ed è gia importante avere il coraggio per prenderne finalmente le distanze, per esporli, per denudarsi impudicamente davanti a chi dovrebbe limitarsi a “guardare” o “ascoltare” (a seconda dei casi) ma senza giudicare, se non è in grado di valutare come si sarebbe comportato lui in certe situazioni e condizioni. Ecco:  il film ci offre appunto una volta tanto e su un caso esplicito, la possibilità e il privilegio di fare questa verifica sia pure indotta (e per quanto mi riguarda, vi assicuro che è disturbante, poiché ci fa considerare possibili decisioni anomale che mai ci saremmo immaginati di essere capaci di prendere in condizioni di totale rilassamento). Assumere allora posizioni di arrogante sufficienza di fronte al coraggio dell’ammissione, è un inaccettabile e pericoloso assolutismo ideologico (purtroppo ne è impregnata la contemporaneità) che esclude la tolleranza ed il rispetto, quasi peggiore di una condanna a morte perché aprioristicamente sembra voler impedire ogni possibile rinascita rigenerata.

Io non sono un filoisdraeliano a prescindere (sono anzi molto critico sul fatto che si pretenda a volte di far passare per leciti, in virtù di un orribile passato che  ha perseguitato e decimato per secoli quel popolo, azioni tutt’altro che esemplari e decisamente esecrabili, che lo mette –  non tutto ovviamente, ma la parte più retriva e conservatrice – se non proprio sullo stesso piano ,abbastanza vicino a quello – ideologicamente parlando -  di chi li ha perseguitati) e non sono di conseguenza assolutamente assolutorio sotto questo profilo, ma devo riconoscere  che c’è una grossa percentuale che fortunatamente non è allineata con chi comanda e che ha una invidiabile voglia di oggettività morale, che si accompagna a una altrettanto ammirabile  “libertà” espressiva del narrare, se si considera che questo è in pratica il terzo film in tre anni (viene dopo Beaufort di Joseph Cedar  e lo straordinario Valzer con Bashir di Ari Folman) sull’esperienza terribile, proprio per le conseguenze umanamente deprecabili oltre che politicamente discutibili, della guerra in Libano (e questo è un fatto che non deve essere sottovalutato: indica la vitalità di quella cinematografia “pensante”).

Se parliamo di “forma”, Lebanon è certamente imperfetto (ed emotivamente anche meno apprezzabile del film di Folman), ma è così intenso e prepotente nel raccontare il suo incubo antimilitarista, da compensare ampiamente i limiti derivanti da quelle imperfezioni (o sbavature che dir si voglia) che pure ci sono (non dobbiamo dimenticare che si tratta comunque di un’opera prima alla quale è lecito concedere la generosa irruenza sicuramente perfettibile con l’acquisizione di una tecnica che solo l'esperienza può fare dominare in toto) perché come ho già accennato, Maoz sfrutta come meglio non sarebbe possibile la claustrofobia dell’ambientazione dentro una guerra che non ha orizzonte, ma ci è offerta “spiata” nelle piccole proporzioni  consentite di ciò che si vede e si percepisce, attraverso l’oblò-mirino della torretta da quei quattro incerti soldati che non avrebbero molta voglia di combattere, né tantomeno di ammazzare qualcuno, ma che si trovano costretti dagli eventi ad agire proprio in senso inverso dal proprio istinto di sopravvivenza che è poi la legge crudele e inesorabile secondo la quale o si uccide o si è uccisi (e qui si torna alle dichiarazioni programmatiche dell’autore stesso per constatarne proprio l’aderenza rispetto al il risultato raggiunto).

Lebanon ha infatti una forza intrinseca, quasi belluina che gli consente di raggiungere una dimensione universalizzata che fa intuire il riferimento anche attualizzato a un dramma primario che è poi quello della coscienza individuale rispetto alle regole dettate dal potere costituito al quale si deve rimanere assoggettati (qui per esempio, proprio nel dover fare i  conti con gli orrori di una follia - quella della guerra appunto – oltre che con le dinamiche apparentemente incontrollabili che si sviluppano durante un combattimento, vedi le scene crude dell’inizio, l’esplosione che danneggia il mezzo e  fa percepire agli occupanti la precarietà e il pericolo della loro situazione, creando reazioni anche drammatiche, e soprattutto il discorso sempre attuale sul devastante uso del fosforo).

Ecco, questi sono i pregi indiscutibili di una pellicola altrettanto esemplare di quelle già sopra citate che l’anno preceduta (un meritato Leone d’oro, dunque, importante e "necessario” visti i tempi), con la quale Samuel Maoz ha voluto “raccontare in un film- terapia” la sua esperienza traumatica seguendo una strada insolita e personale “per acchiappare l’impossibile: non rappresentando la guerra in maniera oggettiva (come, ad esempio, nello splendido Kippur di Amos Gitai, ma facendo  vivere allo spettatore l’orrore mentre si manifesta”  (Stefano Lusardi).

Un film da applaudire senza reticenze, in ogni caso, ottimamente interpretato da Yoan Donat, Italy Tiran, Oshri Cohen, Michael Moshonov e Zohar Strauss.

 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati