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The Twilight Saga: New Moon

Regia di Chris Weitz vedi scheda film

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La recensione su The Twilight Saga: New Moon

di scapigliato
4 stelle

Chi scrive non ha mai letto i libri della Stephenie Meyer. Purtroppo anche questo secondo capitolo della saga/sega letteraria del “crepuscolo” conferma che i film pensati e realizzati per mangiare soldi ottengono proprio questo obiettivo, ma si allontanano dal vero cinema diseducando i più giovani in termini di linguaggio e storia del cinema. Se nel capitolo precedente la mano della Hardwicke in parte si sentiva, qui la regia è anonima, completamente genoflessa alla sola funzione di dirigere, giustapponendo una scena dopo l’altra. Un film privo di commento autoriale non è un film. In New Moon la storia scorre liscia, da manuale, e la sintesi cinematografica non funziona, anzi velocizza diversi passaggi facendo perdere per strada il piacere della narrazione. La regia stereotipata secondo il clichè che va molto da un decennio a questa parte - immagini patinate, carrellate vertiginose per evidenziare la potente macchina produttiva e per far “credere in grande”, l’estremo uso del digitale per tappare là dove l’intelligenza umana non vuole più arrivare, e così via... - riesce giusto a raccontare una storia in parte piacevole e in parte no, dove gli unici elementi interessanti sono gli attori e i loro personaggi, anche se castrati dalla sintesi. Robert Pattison con quel viso irregolare conferma di avere doti che i “filmetti” non possono certo esaltare. Kirsten Stewart è ovviamente un’anomalia nel panorama delle barbies americane, e ci piace per questo. In New Moon però arrivano i licantropi e con loro il chiacchieratissimo Taylor Lauter. Ragazzino scheletrico fino a poche pellicole fa oggi sfoggia un fisico costruito a comando con tutte le conseguenze che questo può portare. La vanità e l’artificio sono una cosa, la salute è un’altra. Purtroppo rappresenta il modello estetico imperante, e questo non gli fa onore - mentre lo fa a Pattison di tutt’altra scuola. Sorprende comunque perchè si rivela un attore capace di tenere la scena. Non un “mostro” di bravura - si muove alla Robocop -, ma avedo un certo fascino dalla sua sa catalizzare la scena, soprattutto gliela ruba al povero vampiro depresso - dove sono Christopher Lee e Bela Lugosi?! - e infatti, da partigiano che sono, il clan dei licantropi è più interessante della patetica famiglia Cullen. Senza saperlo il regista ha messo in scena lo scontro tra spirito e carne, tra vampiri e licantropi, tra attivi e passivi. Il Cullen di Pattison continua nella sua patetica depressione adolescenziale di non accetazione, confonde il sesso con la morale e crede nell’amore assoluto più che nella propria identità, tipico atteggiamento da new-gothic-teen fatalista. Mentre il rivale è tonico, colorato, fisico, carnale, plastico è un uomo-lupo è primitivo ed istintivo, mette il rapporto immanente al primo posto. La sua identità lo porta a scelte radicali e severe, a differenza del Cullen che non decide, non sa, non fa, va e torna. Il Jacob di Lautner invece è animale, è naturale, gli pulsa il sangue. S’inverte giustamente il mito erotico che vedrebbe il vampiro come indiscussa icona dell’Eros. É l’uomo lupo, la bestia, l’animale, la parte istintuale di ognuno di noi ad avere davvero gli elementi iconici - la selva, il corpo, la carne, la natura animale, i genitali, etc. - capaci di rappresentare quell’imprinting erotico-libidinoso che il vampiro incarna solo a metà grazie a tutti i paralleli possibili con la suzione. Al contrario, il vampiro è ambiguo e l’uomo lupo definito: o è uomo o è lupo; il vampiro è seduttivo e attrae, l’uomo lupo è determinato, caccia e si prende la preda. É vero, entrambi sono cacciatori, entrambi sono in linea di massima esseri notturni, quindi tetri, oscuri, ambigui ed enigmatici per definizione, entrambi sono metà uomini e metà mostri - o meglio diversi, non-umani -, entrambi hanno una chiara relazione con la sessualità e ne rappresentano una tensione, ed infine entrambi vengono letti felicemente anche in chiave omoerotica. Ma è anche vero che la netta differenza tra le sostanze, l’efebico ed etereo vampiro contro il fisicato e istintivo licantropo, manifesta una chiara propensione di quest’ultimo agli affari della carne, mentre il primo è per dirla come Maurizio Colombo emo-sessuale. É il sangue, qui però visto sotto il suo aspetto di linfa vitale, quindi anima, subconscio e non sotto l’aspetto carnale come componente rossa e viva del corpo e della carne, è il sangue dicevo l’argomento centrale del vampiro. Se quindi l’uomo lupo pensa alla carne, il vampiro pensa al sangue. Se il primo in definitiva pensa al corpo, il vampiro pensa all’anima. L’uomo lupo di Taylor Lautner, se non fosse per quella sgradevole trasformazione in lupo extralarge fatto col digitale, sarebbe uno dei licantropi più interessanti del grande schermo - e forse il grazie va anche alla sua autrice letteraria. Non solo il clan indiano dei lupi mannari è reso bene e con cognizione del problema immaginifico del licantropo, ma lo stesso personaggio di Jacob non fa un grinza, è perfettamente in linea con l’istinto maledetto della condanna licantropica, che poi può anche non esser vista come tale. Jacob non gradisce questo suo aspetto, ma lo accetta e in un certo senso ne va fiero. Maledetto, ma consapevole. A differenza dei Lawrence Talbot del bianco e nero il Jacob dell’ercolino Lautner appartiene alla sua razza, non demonizza il suo essere mannarico. Qui gli corre in contro l’autrice che ha pensato bene di creare oltre ai vampiri buoni anche licantropi buoni che uccidono solo i vampiri cattivi. Questo toglie ogni problema morale al personaggio che può esibire la sua lupinità anche non da trasformato, attraverso l’adesione del fisico al suo ruolo. Non da ultimo, i primi “vagiti” del lupo che è in lui, Jason li avverte durante il suo primo appuntamento con Bella, e questo elemento lega il film a molti altri horror che hanno utilizzato le trasformazioni mostruose per raccontare quelle puberali - la trilogia di Ginger Snaps su tutti -, così come il dialogo tra Bella e la sua amica fuori dal cinema ricorda un certo teen-horror metacinematografico, con l’unica differenza che Chris Weitz non è Wes Craven. Anzi, le parole dell’amica - ammesso che già siano tali in Meyer - sembrano denigrare l’horror politico alla George Romero a favore di uno pseudo-film del terrore in cui la patinatura e l’artificio patetico sono fondamentali tanto da rendere la saga di Twilight un Beverly Hills 90210 per il grande schermo. Comunque, lupi mannari per tutta la vita. Senza ombra di dubbio.

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