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Pulse

Regia di Jim Sonzero vedi scheda film

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La recensione su Pulse

di amandagriss
6 stelle

 

 

 

Una volta il pericolo veniva dall’ignoto spazio profondo, oggi da internet (che poi sono quasi la stessa cosa).

Risultato: l’apocalisse che prima o poi spazzerà dalla faccia della terra la razza umana non avverrà per mezzo di zombi, meteoriti, collassi climatici, macchine ribelli come abbiamo sempre creduto (o ci hanno sempre fatto credere) ma mediante una più blanda eppur non meno terribile soluzione, l’ingarbugliato universo della moderna era telematica.

Frequenze misteriose nonché intelligenti invaderebbero il nostro mondo di carne attraversando quelle che sono delle vere e proprie porte invisibili aperte da computers e cellulari attivi e connessi (ce ne sarebbero a milioni su tutto il pianeta visto il massiccio uso che di questi ultimi se ne fa), materializzandosi in evanescenti terribili creature affamate dell'anima degli uomini, il cui unico obiettivo è svuotarli del soffio della vita e ridurli a involucri inerti, contenitori vacanti.

Zombi corrosi dall'interno da una cancrena nera come la pece, che li divora fino a polverizzarli. Se però prima non ci pensa quella insondabile voragine interiore, la quale, una volta inghiottiti definitivamente, li indurrà, laconici, a togliersi la vita.

L'unica via di salvezza sono le zone morte, cioè quei luoghi, sempre più rari, tagliati fuori dalle moderne tecnologie, quei posti per intenderci dove 'non c'è campo', e quindi, secondo le nostre attuali coordinate esistenziali, dove non c'è vita.

 

Riuscita parabola sull'incomunicabilità della nostra società, che costruisce la sua esistenza sul paradosso di stabilire delle relazioni, in tempo reale con chiunque-ovunque sulla terra, rimanendosene comodamente seduta in poltrona, immersa nella solitudine della propria stanza, illuminata soltanto dalla bluastra luce di uno schermo elettronico.

Oramai disabituata a guardare negli occhi il proprio interlocutore, a stabilire con esso un reale contatto sensoriale -visivo tattile e olfattivo-, schiacciata dal vuoto della propria esistenza.

Remake della pellicola orientale Kairo, il film -del 2006- oggi pare datato e scontato nelle tematiche, eppure all’epoca Wes Craven, che lo cosceneggia, ne seppe intuire le potenzialità realizzandone una versione per palati decisamente occidentali, al fine di creare una maggiore immedesimazione e incoraggiare a riflettere su quanto la tecnologia non si arresti, nemmeno per un momento, ad invadere il nostro quotidiano, arrivando a condizionarlo pesantemente, e su quanto questa nuova forma di assuefazione/alienazione chiami in causa anche noi, necessariamente coinvolti, sebbene, almeno a suo tempo  ---sono appena 8 anni ma sembra un’eternità, vedere (per credere) i modelli di cellulari presenti nella pellicola, nel 2014 considerati obsoleti---  la pensassimo diversamente, credendoci erroneamente immuni alla rete o comunque capaci di saper gestirla col giusto dovuto distacco.

Craven conferisce al film un tocco personale, spesso autocitandosi -vedi Nightmare e They, da lui prodotto- ma nel passaggio dalla parola scritta all'immagine sullo schermo qualcosa si perde, e la storia risulta depotenziata della sua forza iniziale.

Formalmente ineccepibile e fascinoso (fotografia desaturata, virante al blu metallico e al plumbeo, ricorda alla lontana l'estetica dei videoclip della rock band Tool), è impoverito da dialoghi banali tuttavia intrisi di freddo lessico informatico a sottolineare come lo stesso linguaggio verbale stesse subendo/abbia subìto delle inevitabili metamorfosi, conformi alle trasformazioni dello stile di vita collettivo/globale.

Piccola nota irritante: la durata in scena dei personaggi -saccenti, odiosetti, fragili emotivamente, avvezzi/vittime di questa esistenza surrogato-, quasi tutti condannati alla sentenza senza appello del body count, è direttamente proporzionale alla loro avvenenza o fotogenìa.

 

 

E se i mostri telematici non fossero altro che la proiezione della loro (nostra) stessa essenza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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