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La guerra dei mondi

Regia di Byron Haskin vedi scheda film

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La recensione su La guerra dei mondi

di spopola
6 stelle

Singolare pellicola di idee più che di effetti speciali. Un eccellente esempio dimostrativo di come non sia necessario sbalordire ad ogni costo per appassionare e coinvolgere, perché se i mezzi a disposizione non sono adeguati, può benissimo essere l’intelligenza dell’invenzione cinematografica a rendere interessante il risultato.

La recente riedizione in dvd del classico del 1953 di Byron Haskin, mi permette alcune riflessioni “critiche” su questa pellicola (e sulla sua genesi) che fu considerata alla sua uscita in sala assolutamente “straordinaria” soprattutto per gli stupefacenti “effetti” utilizzati (che adesso ci appariranno forse ingenuamente anacronistici, ma che all’epoca erano decisamente inusuali e insolitamente innovativi, certamente “anomali” per un settore, quello della fantascienza, che – salvo rarissime eccezioni – si manteneva conforme al mercato dell’utenza (ancora di “bocca buona” e facilmente strabiliabile) proponendo soluzioni visive “artigianali” e a basso costo, seppur godibili e fantasiosamente ingegnose. L’accettazione credibile dell’impossibile, passava infatti ancora attraverso la “mediazione” di una fortissima componente (indispensabile e necessaria) di “immaginazione” partecipativamente creativa da parte dello spettatore. L’eccezionale spettacolarità raggiunta (per i tempi) dall’apparato tecnico che curò questa edizione, fu certamente resa possibile dal considerevole budget stanziato per la realizzazione dell’impresa (imponente disponibilità economica sicuramente dovuta al precedente, grande successo ottenuto da “La cosa da un altro mondo”, singolare pellicola di “idee” più che di effetti, un thriller tra fantascienza e horror che rappresenta, per contrapposizione oggettiva, un eccellente esempio dimostrativo di come invece non sia necessario “sbalordire” per “appassionare” e coinvolgere, perché se i mezzi a disposizione non sono adeguati (né sufficienti) per creare “stupore”, può benissimo essere l’intelligenza “dell’invenzione” cinematografica tout court a supportare il lavoro e a permettere di “risolvere” in maniera egregia e trascinante la situazione, utilizzando semplicemente il “cervello” e le possibilità offerte dall’occhio della macchina da presa, dalle riprese e dal montaggio. E’ infatti preferibile in alcune circostanze (e soprattutto in presenza di personalità di spiccato ingegno), “sottrarre” fino ad eliminarle del tutto, “immagini del fantastico” improponibilmente “caserecce” e affidare il risultato del coinvolgimento emotivo a un differente percorso, magari più impervio e difficoltoso, ma forse ancor più “intrigante”, volto a “creare” con la differente metodologia dell’esclusivo utilizzo del linguaggio filmico – e quindi in modo meno artificiale e più perentorio - la suspense disturbante del terrore e dell’attesa). Il produttore Gorge Pal (principale artefice al quale va assegnato di diritto il merito dell’azzardo, ben ripagato poi dal successo e dai riconoscimenti ottenuti) poté così coordinare tutta la lavorazione concentrandosi soprattutto sui trucchi e le manipolazioni visive (che rappresentavano per altro il suo “pane quotidiano” e il settore nel quale eccelleva da tempo) reclutando attorno a sé il meglio che l’evoluzione tecnologica poteva offrire in termini di know-how altamente “innovativo” e artisticamente attendibile nei risultati concreti (ben sei furono gli eccellenti tecnici scritturati per la realizzazione creativa dell’effettistica, ed era allora davvero un numero questo – e un lusso – insolitamente elevato). Analogo indirizzo prese la scelta per la designazione del regista che cadde, quale esperto scenografo e specialista in animazione, sulla non eccessivamente spiccata personalità di Byron Haskin. Ovviamente, viste le premesse, anche questa volta si privilegiò il percorso del “racconto della storia” più che dei contenuti filosofici, costruendo una intelaiatura che determinò nei risultati, un’opera che si differenziava nettamente dal complesso progetto elaborato da Wells con le sue “avveniristiche” invenzioni letterarie (sulla scia quindi – ma in maniera meno significativa e pregnante – di quanto aveva fatto quindici anni prima Orson Welles con quella “geniale” ricostruzione radiofonica dell’invasione, così credibilmente realistica, da creare un fenomeno di terrorizzazione collettiva negli ascoltatori, da rasentare l’isteria, capace di determinare persino alcuni casi di suicidio). I produttori e il mercato, tendevano infatti a sfruttare, soprattutto in presenza di opere di fantascienza, facilmente “manipolabili alla bisogna”, le nevrosi del pubblico e le “paure dell’inconscio” che diventano tangibile realtà, privilegiando per questo (come nel caso in esame) più che il substrato rintracciabile nel romanzo di riferimento (una vera e propria epopea della conoscenza) le implicazioni di superficie estrapolabili dal semplice “racconto” dei fatti, e della conseguente contrapposizione di due “civiltà (o meglio della “civiltà per elezione contro l’oscurantismo barbarico che tenta di distruggerla). Qui più che in altre occasioni, si avverte quindi, ancor più accentuatatamente definita, questa dicotomia fra cinema e letteratura, dovuta in gran parte proprio alle differenze “specifiche” di esemplificazione comunicativa insite nei due mezzi, così dissimili nelle modalità di coinvolgimento “comunicativo”. Il caso della “Guerra dei mondi, può risultare addirittura paradigmatico in questo senso, perché anche a un lettore poco attento dell’opera di Wells, salterà subito agli occhi proprio la “estraneità” del film (nonostante una quasi pedissequa osservanza del percorso relativo agli avvenimenti) rispetto al romanzo originale. Per lo scrittore gli accadimenti diventano il “pretesto” per evidenziare “l’invenzione” futuribile di una società in evoluzione e per azzardare una previsione (poco rassicurante ma concreta) di una complessa società del futuro che investe anche la conoscenza e lo “scontro” con altri mondi a noi alieni. Pal invece (e conseguentemente Haskin), si “accontenta” di risolvere il tutto con l’enfatizzazione visiva dell’apocalisse (e quindi semplificando enormemente la tesi e spostando in maniera determinante l’asse dell’equilibrio). Così il film sfruttando in maniera massiccia le risorse spettacolari del mezzo cinematografico, si limita a rappresentare una elementare storia di “invasione” (analogamente conforme a molte altre) che prefigura semmai sottintesi da guerra fredda che identificano nei marziani la minaccia latente del comunismo rosso, riuscendo persino a rendere palpabili questi paralleli inconsci, affidandosi per questo soprattutto – e principalmente - prima di tutto alle potenzialità “espressive” del colore, qui aggressivo e violentemente onirico, che utilizza una tavolozza cromatica molto contrastata ed “estrema”: astronavi “rosse” (non a caso!!!) e minacciosamente opprimenti, marziani di un verde lussureggiante, intensi blu notturni squarciati dai lampi delle battaglie, e poi alla “dissoluzione policroma” delle città, resa possibile e “visibilmente concreta” grazie al “ritocco manuale” di oltre 5.000 fotogrammi, titanica impresa assolutamente necessaria per consentire il raggiungimento del risultato immaginato, con un lavoro di post produzione assolutamente insolito per quei tempi. Va aggiunto poi l’impegno profuso per la rappresentazione “credibile” delle “meraviglie dell’impossibile” (gli “immaginifici”, squamosi e tentacolari personaggi alieni muniti di un solo occhio elettronico) e gli spettacolari e inattesi “effetti” da giudizio universale che prefigurano la distruzione del genere umano e quindi del mondo che noi conosciamo. Come potrà essere dedotto da queste considerazioni, la trama risulta stereotipata quanto i personaggi che la animano e nessuna “audacia” narrativa o tematica viene introdotta per “alleggerire” o render meno evidente il conformismo che impregna l’intera opera tesa a privilegiare soprattutto l’intento “dichiaratamente” propagandistico del risultato, che diventa così specchio e metafora di quella “minacciosa” e oppressiva presenza del “pericolo rosso” incombente che rappresenta la spina dorsale e il “nocciolo” di ogni significativa opera di fantascienza del periodo. Anche “La guerra dei mondi” tenta infatti di contrabbandare, sotto le mentite spoglie dei mostruosi alieni del mondo galattico, l’avversario di sempre, pericoloso e temuto (il comunismo sovietico… ) e gli anni non a caso sono ancora quelli terrificanti e distruttivi del maccartismo!!! Ma in un certo senso, la programmatica ideologia “moralizzatrice” del progetto, una volta realizzata concretamente nelle immagini, approda singolarmente a risultati non del tutto corrispondenti alle intenzioni, anche se non totalmente dissimili come sarebbe stato auspicabile. E’ indubbio infatti che la connotazione contrapposta di una “superpotenza” nemica da respingere, conferisce alla pellicola un carattere “fortemente conflittuale”, così da avvicinarla, nella struttura portante, a quella di ogni film che tratta temi di natura bellica, indipendentemente dai riferimenti storici. E non è al riguardo casuale (ma è certamente il frutto di una “scelta” ben ponderata che va al di là del fatto che quei “materiali” erano disponibili e pronti all’uso, senza bisogno di ulteriori riprese acrobatiche) che all’inizio del film, la presentazione del conflitto in corso venga effettuata utilizzando materiale di repertorio (solo “lievemente manipolato”) proveniente dagli archivi storici delle ultime due guerre mondiali, come non è di secondaria importanza la considerazione che il regista abbia si sia avvalso proprio delle truppe del comando di Phoenix per girare tutte le scene che “inquadrano” le riprese relative alle manovre militari dell’esercito. Un altro riferimento specifico al genere, è determinato dall’utilizzo del montaggio per raccontare le fasi della lotta “marziani contro terrestri” (ancora una volta realizzato con sequenze “rigorosamente” alternate) secondo un procedimento e una logica “visiva” che costituisce la procedura standardizzata di ogni film di guerra che si rispetti. Tutto come da copione, insomma se si eccettua la “particolare” natura aliena degli invasori. Tenendo conto di questa analisi postuma, si evince comunque e indiscutibilmente, che il remake più diretto e “attendibilmente conforme” (e ancora una volta il romanzo di partenza c’entra davvero ben poco) non è sicuramente il nuovo e recente “La guerra dei mondi” di Spielberg, ma bensì la delirante “americanata” con il culto dell’invincibilità (aggiornata ovviamente nei contenuti ai temi attualizzati della realtà più deprecabilmente corriva della nostra attuale civiltà e dei suoi valori morali in picchiata vertiginosa) che risponde al titolo di “Independence Day”.

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