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United 93

Regia di Paul Greengrass vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su United 93

di spopola
8 stelle

Paul Greengrass ha la rara capacità di far sembrare più reale del reale quello che ricostruisce invece con un lavoro di sofisticata “ingegneria” compiuto sulle immagini e sui ritmi, che raggiunge spesso il virtuosismo, un intervento molto “tecnicistico” e tecnicizzato il suo che è decisamente frutto di un attento studio e di una profonda conoscenza del mezzo che utilizza - che gli permette di arrivare a risultati sorprendenti grazie anche al funambolico impiego di una cinepresa mobile e scattante che “fluttua” come l’aereo intorno all’equipaggio, ai passeggeri e ai dirottatori - ricorrendo a tutte le “artificiosità” che il cinema consente e gli mette a disposizione, ma facendolo apparire nell’impatto con il pubblico, così naturale e immediato da diventare quasi un documentario cronachistico che descrive i fatti praticamente in “presa diretta”. Il “miracolo” si era già verificato con “Bloody Sunday” e si ripete nuovamente, notevolmente amplificato, con questo suo “United 93” con il quale, rasentando davvero il capolavoro, racconta una “possibile verità” – non importa se si tratta di quella effettivamente certa (sarebbe stato davvero difficile chiedere di più, viste le incongruenze e i “misteri” inquietanti che aleggiano sui movimenti soprattutto conclusivi, di quegli avvenimenti drammatici che sono stati l’origine di uno sconvolgimento profondo e generalizzato che ha coinvolto praticamente il mondo intero, sia pure in maniera differenziata, ma quasi mai del tutto “indolore”) – la ricostruita ipotetica e attendibile (realizzata con la collaborazione e l’approvazione di tutte le famiglie delle vittime) della versione ufficialmente acclarata, e con la quale fino a prova contraria dovremo tutti fare i conti, perché se qualcosa di diverso è effettivamente accaduto non sarà nostro (di queste generazioni) il privilegio di venirne a capo e di conoscere davvero la portata “esatta” degli eventi. L’unica cosa inconfutabile (perché ci sono appunto i congiunti delle vittime – le mogli, i mariti, i genitori e i figli - a testimoniarne il dramma) è che in quel volo persero la vita tutte le persone che erano a bordo dell’aereo, e questo indipendentemente dal fatto che le cose siano andate secondo l’ ipotesi elaborata cinematograficamente che “sposa la tesi dell’atto eroico” o che si sia trattato invece di un abbattimento programmato eseguito dal Pentagono ma non dichiarato o ammesso per ovvie (ma umanamente incomprensibili) ragioni di convenienza politica: i morti ci sono stati ed è realisticamente credibile che la tragedia, lassù in cielo, in quegli interminabili minuti senza speranza, sia davvero stata vissuta così come il regista ce la fa percepire (si potranno modificare le sfumature, persino le cause e le consequenzialità della “disintegrazione”, ma non la sostanza che si concretizza con l’olocausto di tutte quelle vite perdute). E poi Greengrass, “rappresenta” molto di più del fatto in se, decidendo di soffermarsi a lungo anche sulla genesi, per non “tacere” e mantenere presenti tutte le incredibili “deficienze” che impedirono a lungo di percepire da terra (scientemente o no) l’esatta portata degli avvenimenti in quel susseguirsi tumultuoso di circostanze tutt’altro che fortuite, che segnò indelebilmente e per sempre quel terrificante 11 settembre del 2001, e lascia così che scorrano in sottotraccia e senza alcuna sottolineatura (ma a mio avviso avvertibilissimi) molti di quei dubbi che attanagliano spesso i nostri pensieri, e che riguardano le effettive motivazioni che possono davvero aver consentito il compiersi di una così immane tragedia (si “intravedono” incomprensibili “ingenuità” che determinano il legittimo sospetto di inevitabili coinvolgimenti “finalizzati” dei vertici dei centri del potere Americano). Ed è singolare e importante (ma era davvero tutt’altro che scontato) che anche in questo caso ci sia una consapevole equidistanza di visione che il regista mantiene sia nei riguardi delle vittime che dei (presunti) carnefici, a loro volta agnelli sacrificali offerti sull’altare di una indottrinazione ottusa e anacronistica che non lascia scampo se non quello della conseguente – e per loro logica – consacrazione della propria vita nel gesto estremo di assecondare il volere supremo del “profeta”. Davvero, nessuno è rappresentato sopra le righe in questo esacerbato viaggio verso la fine: non i passeggeri e l’equipaggio, né tantomeno gli spauriti esecutori di quel “disegno” superiore condizionati a compiere un gesto così definitivo in nome – e per la gloria - del loro Dio. Il regista, ricostruendo pedissequamente i fatti con ritmi che dal lento dipanarsi dell’inizio si fanno via via più forsennati e furenti, utilizzando spesso la macchina a mano che riesce meglio di altri “sofismi” a rendere con la sua instabilità ansimante, la tragicità ansiogena di quelle ore, e facendo un uso accorto del supporto musicale che spesso “sacrifica” per lasciare spazio ai soli rumori di fondo, soprattutto nei momenti di più alto coinvolgimento drammatico, che diventano sconvolgenti nel finale parossistico, riesce davvero a farci entrare “fisicamente” dentro la carlinga, ci “costringe” a sedersi con il respiro che si strozza in gola, su quelle poltrone per “vivere quasi in prima persona” la spaventosa claustrofobia che rende folle il “topo chiuso in trappola che non ha scampo” e che acquisisce progressivamente la coscienza della sua sorte. Greengrass racconta “l’episodio e il giorno”, ma riesce ad andare davvero oltre e ad illustrare con accorato dolore anche come in effetti l’uomo – qualunque uomo (da solo o in gruppo) - sia quasi sempre tragicamente incapace di sottrarsi alle proprie responsabilità e al proprio ineluttabile destino. Assistiamo così al consueto svolgimento di una giornata dall’apparente ripetitività della consuetudine, col sole che splende nel cielo sereno, gli aeroporti densi di traffico “intasati” dalle solite banalità problematiche di ogni giorno, mentre impariamo a “conoscere” gradualmente con piccoli e sapienti accenni, le fisionomie dei “ predestinati”, non manicheisticamente divisi fra “buoni e cattivi” (semmai definiti fra coloro che “sanno” e quelli che ignari diventeranno loro malgrado pedine di un gioco che non lascerà scampo per nessuno) ma semplicemente rappresentati come “esseri umani” con egoismi, esitazioni e limiti analoghi a quelli di ogni altro individuo, in un miracoloso equilibrio antiretorico che è anche un profondo atto di amore che accompagna e avvolge “tutti” i protagonisti di questa terribile vicenda (e si tratta di una attenzione all’uomo sempre più rara e meno scontata nel vivere di tutti i giorni, una imparzialità di sguardo e di “posizione” che diventa analiticamente oggettiva e non soggettivamente “di parte”, un’ottica che da troppo tempo – purtroppo – non è più appannaggio della nostra “pseudo-civiltà” attuale, né delle sue istituzioni, a qualunque livello si vogliano considerare). E gli “schizzi” che ne emergono (abbozzi di vite da una parte e dall’altra della barricata) sono esemplari e coerenti, capaci di “definire” solo con pochi tratti accennati, storie di vita vissuta diverse e lontane di personaggi che il destino ha fatto incontrare nel momento estremo della morte (e non ci sono sbracamenti eccessivi, ma solo un atterrito sbigottimento e la forza della disperazione che accompagna logore e “consumate” frasi di commiato che nulla aggiungono all’accorato “silenzio” di chi non è più in grado nemmeno di trovare le parole adatte per un congedo decente… ). Attente e precise e forse ancor più dolorose, le psicologie dei dirottatori, quattro “maldestri” impauriti “ragazzi” schiacciati dalla consapevole certezza di dover andare forzosamente incontro al loro destino, ma così fortemente coerciti da non essere in grado di opporsi al compito “estremo” che è stato loro assegnato (e il momento delle preghiere “incrociate” ciascuno verso il suo Dio - strazianti e definitive - che riesce davvero a farci provare il disagio infinito di un incolmabile e decisivo sentimento di “rabbiosa impotenza”, rappresenta un dei vertici più drammaticamente intensi di tutto il percorso, insieme alla concitazione esaltata della conclusione che lascia solo “intuire” che cosa avverrà (o che cosa potrebbe essere accaduto dopo) con quella “disperata” virata verso il basso alla quale segue semplicemente il silenzioso buio dello schermo nero e nient’altro, prima dei titoli di coda. Davvero io credo di essere uscito dalla visione di questo omaggio al “ricordo e la memoria”, con minori “certezze” di quelle che credevo di avere acquisito in precedenza, e questo proprio grazie alla ricostruzione documentale (la stragrande maggioranza dei tecnici e degli a detti al servizio dei centri di controllo a terra sono interpretati - nel ruolo di se stessi - proprio da coloro che furono “testimoni reali” e protagonisti effettivi) di molte (troppe) “imbecillità” quasi impossibili da immaginare che avrebbero forse potuto (volendo) essere evitate, così da eludere (o attenuare) l’immane tragedia che tanto ha influito nel modificare le nostre percezioni dei fatti della vita di ogni giorno: è il mondo che ci è esploso intorno nell’impatto con le torri gemelle, e l’esplosione continua e si estende di ora in ora, come in un disegno precostituito che fa comodo a molti (e si perpetua tremenda con il dilagare di guerre sempre più apocalittiche, con le stesse identiche modalità distruttive, senza che nessuno avverta davvero il bisogno o possegga le capacità realisticamente concrete, di mettere davvero la parola fine alla spirale innescata). Ci ritroviamo allora tutti insieme, ancora seduti attoniti e impotenti, su quell’aereo che sta andando incontro alla propria sorte, incapaci di impedire il massacro e con la consapevolezza cosciente di poter fare davvero poco per fermare “le stupidità” o i “destini” (chiamateli pure come ritenete più opportuno, tanto il risultato non cambia, ed è comunque tragico).

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