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Gli assassini sono nostri ospiti

Regia di Vincenzo Rigo vedi scheda film

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La recensione su Gli assassini sono nostri ospiti

di moonlightrosso
6 stelle

Poverissimo "rape and revenge" ma ricchissimo di bizzarrie.

Gradito recupero in versione uncut di questo “rape and revenge” a bassissimo costo, che riprende, almeno nella parte iniziale, alcuni degli archètipi canonizzati già in chiave filmica dai gialli di Giorgio Scerbanenco: rapina in gioielleria da parte di tre malviventi; reazione inconsulta degli aggrediti; inutile bagno di sangue con il ferimento accidentale di uno dei rapinatori; fuga in automobile con immancabile inseguimento da parte delle Forze dell’Ordine.

La vicenda prosegue nella villa di un medico (l’ex reuccio degli spaghetti western Anthony Steffen, al secolo Antonio De Teffè) trovato dalla “banditessa” Margaret Lee consultando le “Pagine Gialle”!!! per trovare rifugio e curare l’amico ferito, impersonato dall’indiscusso e oggi compianto principe di casato e soprattutto del trash Gianni Dei Carpanelli.

Un film che avrebbe potuto, con un budget adeguato, esaltare al meglio le non comuni doti tecniche dell’ex documentarista Vincenzo Rigo, che preferirà in futuro offrire il suo talento al mercato delle nascenti tv private.

Inquadrature sghembe, frame stops, montaggio serrato, atmosfere tipicamente settantiane d’una Milano autunnale e nebbiosa devono cedere, nel prosieguo della pellicola, a più economiche ambientazioni in interni; qui il Rigo, costretto ad abbandonare stilemi dileiani per ovvia carenza di personale e mezzi adeguati, ripiega comunque a satollare con una certa originalità d’intenti e col valente ausilio d’un curioso copione vergato da Bruno Fontana e Renato Romano, i reali “desiderata” delle platee dei cinemini di periferia in cerca di forti emozioni, nonché di tutti quei raffinati cinefili “a la rechèrche” dello strange e del weird.

La villa del medico diverrà infatti teatro di una congerie di soluzioni di quel delizioso cattivo gusto che (volutamente o no) ci porteranno a travalicare i più reconditi confini della bizzarria. Se Anthony Steffen è protagonista sciapo, è la di lui consorte (una procacissima Livia Cerini) con la quale vive in aperta crisi coniugale, ad assurgere icasticamente ad autentica eroina in negativo della situazione. Se con coraggio e senza ritegno si rivolge a uno dei banditi (un rude Giuseppe Castellano) chiedendo bellamente di “…poter andare al cesso!”, con altrettanto coraggio affronterà Margaret Lee sorpresa in cucina, sciorinando nervosamente dal frigorifero svariate cibarie, per poi lasciarsi coinvolgere in un inaspettato rapporto saffico. La delusione di tutti coloro che si attendevano di rimirar le gigantesche areole mammarie della Lee sarà ampiamente ripagata da un imperdibile handjob impartito dalla Cerini sull’uscio di casa a un amico troppo invadente per impedirgli di entrare e con il truce Castellano che sbatacchia il capoccione dietro la porta a ogni “…movimento”. Congedato il fortunato seccatore, il buon Castellano rivolgerà alla Cerini come prosaico apprezzamento un indimenticabile “Ci sai fare con i pistolini!”, prima di riservarle uno stupro con annesso tentativo di strangolamento.

Alle vicende dei tre criminali ai quali si unirà anche il cervello della banda Maurice (un ultratossico Franco Pizzochero), si alternano le strampalate indagini del commissario Luigi Pistilli con immancabili e accentuatissimi basettoni “very seventies style”. Abbandonato l’aplomb del poliziotto disincantato e idealista della “Milano Calibro 9” il nostro qui cede a un irriverente quand’anche delirante sarcasmo evidenziato nell’ormai celeberrima battuta, riferita ai banditi d’oggi giorno, come uomini che “sparano sparano ma che si sparassero delle seghe!”. Ciò senza dimenticare il suo vice interpretato da quel Giovanni Brusatori futuro regista del caposaldo del trash “Le evase, storia di sesso e di violenze” (1978), il quale si ricorda, più che per capacità attoriali, per il suo improponibile papillon, secondo soltanto a quello gigantesco e ultraridicolo di Enzo Tarascio nell’indimenticabile “Prato macchiato di rosso”.

A conclusione del colorito cast, il testè citato Gianni Dei, noto per essere stato uno degli interpreti più incapaci che mente cinematografica ricordi (peggio di lui mi pare ci sia soltanto Antonio Zequila), si lascerà guidare in questa sede in una delle più felici scelte registiche della pellicola. Sia pur alle prime armi, il buon Rigo, intuendo di non avere esattamente a che fare con un attore uscito dalla "Comèdie Francaise" o dall'"Actor's Studio", deciderà intelligentemente di farlo apparire per non oltre quattro o cinque minuti per tutta la durata del film, affidandogli altresì il minor numero di battute possibile.

Assolutamente degno di nota e perfettamente in linea con lo spirito weirdo della pellicola il finale a sorpresa, risolto da quell’equivoca biondazza in stivaloni e minigonna, alla quale la Lee nella scena iniziale aveva rubato l'automobile per compiere la rapina in gioielleria e che rivelerà essere, non già una donna ma un appariscente transone.

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