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Parole d'amore

Regia di Scott McGehee, David Siegel vedi scheda film

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La recensione su Parole d'amore

di Aquilant
4 stelle

Evidentemente il cinema statunitense di questi tempi, oltre ad essere piombato in una profonda crisi d’identità senza necessariamente averne coscienza, comincia a soffrire di smanie autoriali che sfociano in dettagliati resoconti di sindromi depressive a carattere familiare, quasi come rivalsa ai numerosi problemi congeniti di non facile risoluzione.
Temi trattati con una buona dose di superficialità seppure con rinnovata ostinazione, quasi a voler fregiarsi ad ogni costo di quella denominazione DOC che compete di diritto ad un tipo di cinema capace di soffermarsi con occhio clinico e consapevole sulla realtà pulsante della vita, trasfigurandola in termini narrativi tramite un efficace mutamento di prospettiva oltre che con la creazione di uno spazio di pura inquietudine in grado di mettere alle strette lo spettatore inducendolo a vivere un ruolo scomodo ma in fin dei conti coinvolgente nell’intero arco della visione.
“Bee season” (con riferimento ad una competizione nazionale chiamata Spelling Bee), tradotto in “parole d’amore” ad uso e consumo dei malcapitati fruitori domenicali malamente turlupinati nel modo più indegno possibile, è un adattamento per lo schermo dell'omonimo romanzo di Myla Goldberg imperniato su temi di ordinario disordine familiare, tanto cari al nostro Muccino che su tali argomenti si è soffermato a più riprese con alterna fortuna.
Ma se le tonitruanti indagini del Nostro risultano costantemente volte ad una laboriosa ricerca di credibili concatenazioni di causa ed effetto senza soffermarsi più del dovuto a tratteggiare una parvenza di psicologia dei personaggi, la presente pellicola, ad opera di David Siegel e Scott Mc. Gehee, nomi abbastanza di casa ai Sundance Film Festival, soffre esattamente di un malessere opposto, al punto che le singole identità caratteriali, più o meno radicate in un substrato psicologico individuale di per sé accettabile, perdono sensibilmente di credibilità una volta coattivamente indotte dal meccanismo filmico al reperimento di una caleidoscopica identità alternativa in grado di provocare la deflagrazione di un conflitto di base che pecca irrimediabilmente di gracilità.
Si assiste in tal modo ad una serie di percorsi trascendenti in parallelo che prendono l’abbrivio da una condizione di partenza non ben delineata o quanto meno derivante da una serie di dinamiche familiari che prese globalmente in esame mostrano una scarsa credibilità se rapportate alle concatenazioni di causa ed effetto che costituiscono il nocciolo portante della narrazione. Ed in questo fare di tutta l’erba un fascio con l’accostamento di temi esoterici ai più disparati argomenti religiosi (ebraismo, cattolicesimo, induismo), non manca neppure l’aggiunta della classica ciliegi(o)na sulla torta, prevedibile colpo di scena finale volto a ristabilire gli equilibri precari, che pecca palesemente di credibilità. Peccato per le sequenze relative alla gara di spelling che a causa del ridicolo doppiaggio italiano a volte finiscono per generare ilarità e risate a scena aperta, a dimostrazione del fatto che tra dramma effettivo ed amore come da turlupinante titolo nostrano un po’ di comicità non guasta mai. In definitiva si assiste al vuoto “relativo” di un cinema che pur dibattendosi alla ricerca di una diversa identità è da condannare in toto, nonostante una Juliette Binoche quasi all’altezza del suo tormentato personaggio.

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