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I fratelli Kelly

Regia di Tony Richardson vedi scheda film

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La recensione su I fratelli Kelly

di spopola
4 stelle

Nella filmografia piuttosto ondivaga di Tony Richardson, questa è una delle prove fra le più deludenti e sterili, soprattutto sotto il profilo dell’estetica cinematografica.

L’unico elemento che potrebbe ancora richiamare un minimo di attenzione (o meglio di curiosità), è l’utilizzo in veste di attore di Mick Jagger, leader carismatico dei Rolling Stones  (che a essere onesti non se la cava poi nemmeno molto bene davanti alla macchina da presa) ma che per lo meno ci regala momenti di “rilassata” compartecipazione acustica con l’interpretazione canora di The Wild Colonial Boy.

Tutto è dunque fortemente risibile e assolutamente “obliabile”. L’unico elemento che forse regge ancora un poco (ma limitatamente a una lettura dei contenuti, non certo della forma) è la parte che potremmo definire “accusatoria”  o di rivolta contro il sistema (ma qui il merito va attribuito principalmente al soggetto più che al regista, e non è certo sufficiente a spostare l’ago della bilancia in favore di un giudizio se non positivo, per lo meno assolutorio).

Realizzato sulla scia di un filone “vincente” e di successo che da Gangster story  a Il Clan dei Baker riproponeva con una visione abbastanza romantica dell’insieme, ma pregnante sul versante  dei significati simbologici, storie di rivolte anarcoidi e belluine, anche questo I fratelli Kelly racconterebbe in pratica il percorso di una  tentata “rivoluzione” riproponendo la storia “reale” di Ned Kelly  e dei suoi fratelli,  irlandesi di nascita, che oltre un secolo fa in Australia , dove erano emigrati in cerca di fortuna, dopo una lunga prigionia del protagonista, diventarono fuorilegge per opporsi ai soprusi e vendicarsi delle vessazioni, ingaggiando un’aspra  e prolungata guerriglia contro le truppe inglesi e assurgendo così al ruolo di veri e propri martiri della resistenza  antibritannica.

Il materiale per rappresentare una ribellione già cosciente sul piano sociale e con tutti i crismi per diventarlo anche su quello politico, c’erano tutti, e forse un Richardson ispirato e nei suoi cenci migliori ci poteva riuscire egregiamente a plasmare al meglio questa materia dai riflessi smaccatamente marxisti.

Questa volta invece il regista, pur riuscendo a rendere abbastanza bene gli umori dei suoi personaggi, sembra che non sia particolarmente attratto nemmeno da questo aspetto “politicamente” significativo, e sceglie di non “correre” rischi di contrapposizione ideologica, adottando una forma fortemente edulcorata della rappresentazione che si stempera nel finale decisamente oleografico e convenzionalmente “inoffensivo” del tradimento della fiducia del “puro rivoltoso”, adeguandosi cosi allo schema ormai consolidato di sceneggiare le gesta “avventurose” di un utopico e perdente idealista, rinunciando all’altra lettura possibile che, sulla scia degli avvenimenti internazionali di quegli anni e fatte le debite proporzioni, avrebbe potuto impegnarlo nel disegnare il prototipo più che  di un periferico, convenzionale Robin Hood destinato alla sconfitta, di un piccolo  Che Guevara in pectore, anche se oggettivamente Ted Kelly, persino per quel che emerge davvero dalla Storia, aveva ben poco della altruistica generosità del Che e non possedeva certo un  retroterra culturale teorico e politico di analogo spessore,  così come pure i suoi persecutori però, avevano solo i connotati “esteriori” di quel capitalismo espansivo ma non ancora del tutto maturo e definito che si sarebbe sviluppato meglio nei decenni successivi, anche se in fondo era ugualmente truce e mefitico con i suoi movimenti prevaricanti. Il paragone sarebbe  risultato un po’ “ardito”, ne convengo ma ne avrebbe guadagnato il rapporto con il pubblico, di gran lunga più stimolante se il lavoro si fosse sviluppato in quella prospettiva, vista la tematica e gli anni di riferimento (mi riferisco ovviamente a quelli della programmazione in sala della pellicola).

Nel film si bollano dunque l’intolleranza sociale e i metodi di accumulazione capitalistica, la connivenza del potere istituzionale e il razzismo xenofobo che tende di per sé ad emarginare coloro i quali, pur volonterosi, ben difficilmente potranno aspirare a ritagliarsi il rango di indigeni “rispettabili” comunque vadano le cose, schiacciati come sono fra lo sfruttamento “schiavista” e l’alcool. Tutto questo però emerge più chiaramente dagli inserti-accusa assegnati alla voce del protagonista posti in testa e in coda all’opera, che didascaleggiano ancora di più il risultato. Per il resto infatti, la via seguita è quella strettamente legata alla tradizione avventurosa a cui accennavo sopra, sia pure con l’innovazione tecnico-poetica dell’accompagnamento canoro-rapsodico  che tende tragicamente a spostare il tutto sul versante dell’epidermico e del folcloristico, cosa che nuoce ulteriormente alla riuscita dell’opera, che vede quindi così definitivamente annacquato (per non dire annullato) il sentimento genuino di una rabbia rivoltosa e ribollente che diventa poco più di una un po’ prolissa e sterile esibizione addomesticata, nemmeno tecnicamente ineccepibile sotto il profilo dello “stile”.

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