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La febbre

Regia di Alessandro D'Alatri vedi scheda film

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La recensione su La febbre

di giancarlo visitilli
4 stelle

“Solo quando si rimettono a posto i morti, si mettono a posto i vivi”: elegiaca, patriottica, (a)politica, ecc., la frase lapidaria con cui il regista D’Alatri ha voluto immortalare il contenuto del suo nuovo film, La febbre. Un regista che si distingue in ogni suo film per le stesse qualità per le quali è diventato famoso nel mondo della pubblicità. Ma il cinema è bel altro.
Infatti, La febbre è il giusto titolo con cui sintetizzare anche i sentimenti e le impressioni che la visione del film suscita. Febbre e imbarazzo. La storia è quella di Mario Bettini, un trentenne di Cremona, il cui sogno è quello di aprire un locale con tre suoi amici. Il gruppo affitta un capannone e, aspettando i permessi burocratici, inizia i lavori di ristrutturazione. Nel frattempo Mario riceve la lettera di assunzione da parte del Comune di Cremona. Aveva fatto un concorso quattro anni prima e si era completamente dimenticato della cosa. Inizia così una doppia vita: la mattina impiegato comunale, il pomeriggio e la sera futuro imprenditore. La sua esistenza però si complicherà poiché sul lavoro subirà pressioni feroci e angherie intollerabili, mentre la sua amata ragazza deciderà di andare a vivere in America, in seguito ad una meritata borsa di studio. Alla fine, stanco dei problemi continui che dovrà risolvere, Mario prenderà una decisione che cambierà la sua esistenza.
E’ una storia come milioni di altre quella de La febbre che, come al solito, fa emergere i disagi, i sogni, le contraddizioni, insieme alle speranze e le angosce di chi aspetta “il posto e lo stipendio fisso”, quasi fosse ormai una malattia quella di aspirare ad un proprio diritto, specie se si è superato un concorso (è il caso di tante migliaia di giovani laureati italiani. Lo sa D’Alatri?).
Il film del regista di Casomai, pur essendo girato con l’assoluta perizia tecnica, che assomma i ‘bei’ volti televisivi all’utilizzo del computer, risulta un’operazione inutile e abbastanza confusa, specie per quanto concerne la sceneggiatura, scritta insieme a chi oggi insegna ai futuri registi e sceneggiatori come scrivere un film, Domenico Starnone e Gennaro Nunziante (“Dove lavora al Comune?” “No, lei è fuori dal Comune”: battuta indegna anche per una qualsivoglia pubblicità) e l’utilizzo della colonna sonora, che seppur bella, specie il brano d’apertura e di chiusura dei Negroamaro, è ridondante ed evasiva. A proposito, rimane forte il dubbio: ma che c’entrano nel film tutti i brani tratti dall’Aida di Giuseppe Verdi e di altre opere, tipicamente patriottiche, con tanto di Inno di Mameli?
Quel ch’è peggio è che, anche dopo averlo ‘digerito’ (dopo interminabili 108 minuti), dal film di D’Alatri emerge la solita generazione dei trentenni, inetta a vivere e capace soltanto di isolarsi per dar sfogo a qualche amore, sempre fugace e passeggero. I trentenni rassegnati, consapevoli di vivere in un “Italia bella” (per ribadirlo il regista ha utilizzato addirittura Arnoldo Foà nella veste di un presidente della Repubblica), anche se lascia i suoi figli alla precarietà che dura tutta una vita. La Febbre provoca una rabbia interiore per i contenuti a cui abbandona le menti di chi si lascia ‘trasportare’ in sala, durante la visione: è possibile che l’unico desiderio di un giovane oggi in Italia sia quello di scomparire e di vivere in campagna con una bella ragazza tra le braccia? E tutti coloro che ogni giorno si sforzano di sfebbrarsi, pur di tirare a campare, cosa sono: quelli che D’Alatri definisce nel film “genere coglione”?
Interrogativi irrisolti a cui non basteranno i tanti film-pubblicità di D’Alatri per darci una seria risposta. Intanto la febbre sale, per mancanza di storie a cui il cinema ci sta disabituando.
Giancarlo Visitilli

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