Regia di Nagao Gen vedi scheda film
In un presente alternativo, che potrebbe essere un futuro distopico ma anche un passato inesistente, una donna vive come una cavernicola dentro lo scheletro di un edificio – anche questo non si sa bene se diroccato, quindi vecchio, o mai finito, quindi nuovo. Il suo incubo ricorrente di una figura nera, che le si avvicina mentre dorme e cerca di violentarla, la tormenta e non le permette di prendersi il meritato riposo da giornate di sfacchinate avanti e indietro, da un ruscello per approvvigionare la sua acqua o dal bosco per cacciare qualche coniglio. Lo stupro subìto da tre uomini e l’incontro con un altro cavernicolo che sembra dolce ed equilibrato portano la protagonista a rivedere e ridefinire la forma maschile aggressiva che tormenta i suoi incubi.
È un mondo alla Kaneto Shindo, quello che intercetta la macchina da presa di Gen Nagao, ex assistente alla regia di Kiyoshi Kurosawa. Ed è un mondo muto, fatto di micro-sinfonie di rumori, di gemiti analfabeti, di gocciolii ritmati, mentre ondeggia fra i generi (horror, comico, drammatico) unificati solamente dal patinato bianco e nero. È un mondo alla Kaneto Shindo perché il desiderio è duplice, è ambiguo, spesso è mortifero e brutale, costringe a bivi irrimediabili e a conflitti irrisolvibili fra gli uomini. C’è alla base un’idea nichilista di impossibilità della convivenza tra umani – tra i due sessi, ma anche in generale tra le persone – che rende Movie (Choke) uno scontro diretto tra spettatore e abisso. Il pessimismo cosmico di un mondo non distratto nemmeno dalla civilizzazione, come se l’impossibile convivenza fosse inscritta nella natura umana, mentre l’immagine cinematografica si riassesta su un primitivismo essenziale, ben gestito e mai sostituito dalla scrittura di eventuali cartelli perché sarebbe, appunto, un tradimento dell’assunto in-civile e a-grafico di tutto il film. Nagao sa articolare i pochissimi strumenti che ha a disposizione, e pur dilungandosi troppo trova la quadra per la sua formula: per tre quarti la trova sull’ovvia ma complessa autodeterminazione della protagonista, e nell’ultimo quarto la trova nell’interrogazione non scontata delle azioni finali della stessa protagonista, messe ancora una volta di fronte a un dubbio: forse l’essere umano singolo, solitario, isolato da tutti, non può convivere, per natura umana, nemmeno con se stesso.
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