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The Unsaid. Sotto silenzio

Regia di Tom McLoughlin vedi scheda film

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La recensione su The Unsaid. Sotto silenzio

di spopola
4 stelle

C'è molta carne al fuoco ma per arrivare poi a una conclusione troppo repentina che cerca di normalizzare con eccessiva facilità tutto quello che di disturbante era stato esposto prima forse per garantire la serena tranquillità del quieto vivere dello spettatore che francamente dopo quello che gli è stato fatto vedere, non può che restare perplesso

Il film potrebbe benissimo essere considerato un compendio esplicativo… atto ad illustrare al volgo un famoso spot promozionale Rai di qualche tempo fa…: “Di tutto… di più…” ricordate? che a mio avviso sarebbe anche lo slogan più adatto per sintetizzare la pellicola in questione, la “perfetta frase di lancio” utilizzabile per questo accumulo infinito di “nefandezze” e distorsioni mentali, incomprensioni, rancori e manipolazioni, fra contorti drammi familiari e irrisolti complessi edipici (meglio definibili come “improbabili sindromi di Giocasta”, considerando il contesto e i giochetti erotici sottintesi che sono all’origine di una fetta cospicua dei tragici eventi descritti). Ma non è ovviamente tutto, perché ci siamo per il momento limitati a rappresentare solo uno dei lati “oscuri” della medaglia (e sarebbe davvero già abbastanza per saturare più di una pellicola): l’altro – analogamente “torbido” - ci mostra infatti un surplus di intricate compromissioni fra terapeuti (a loro volta bisognosi di approfondite “analisi”) e i loro incauti pazienti (facciamo adeguati scongiuri per non finire mai sotto cotante “mani”, se la griglia, almeno in America, risulta essere tanto larga e così poco rassicurante!) accompagnato da imponderabili ingenuità e deragliamenti progressivi verso la schizofrenia ossessiva che non può che approdare al delitto seriale. Il tutto, realizzato con una “scrittura” decisamente ridondante ed incline agli eccessi (paranoica più dei “casi” evidenziati mi viene da dire) biecamente ad “effetto” e così “densa” di colpi di scena a non finire che si incastrano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, da determinare persino il senso di una fastidiosa “assuefazione” incredula che annulla l’effetto così faticosamente ricercato. Il terreno si presenta minato fino dagli inizi, e si avvertono influenze significative per esempio da parte dell’analogamente non eccelso “Schegge di follia” di qualche anno precedente (se non altro per le implicazioni relative al rapporto “manipolatorio” che anche qui, come nella precedente pellicola, imbroglia indecentemente il solone delle menti, che risulta essere davvero poco perspicace e intuitivo) che per lo meno aveva il pregio di concentrarsi su di una singola patologia e non pretendeva di toccare tanti (troppi) temi come si è fatto in questo caso, per altro con un schematismo moralisticheggiante capace di accentuare ancora di più il senso di disagio e di “inadeguatezza” per la troppa superficialità oggettiva che vi si riscontra via via che l’intricata matassa comincia a sdipanarsi sotto i nostri occhi increduli. La visione è spesso irritante, e il melodrammatico pastrocchio non arriva quasi mai ad appassionare e coinvolgere davvero: risulta un epidermico e insulso “manuale di perversioni e abusi” (ogni tipo di abuso, anche quello che riguarda la pazienza e la capacità di “sopportazione” dell’ignaro spettatore coinvolto nel vortice, perché a tutto c’è un limite e il troppo stroppia sempre… e se si eccede troppo, è inevitabile che si finisca per cadere nel ridicolo e nella noia) artatamente gonfiato ad arte… ma come si sa il palloncino per quanto elastico ha un limite espansivo e se ci si immette troppa aria, finisce inevitabilmente per scoppiare fra le mani di chi lo gonfia. Questo è proprio quello che accade a “The unsaid”, che pretenderebbe di “venderci” a un tanto al chilo “incesto e pedofilia”, e lo fa con una disinvoltura, una faciloneria e una approssimazione davvero sorprendenti (il difetto – che non esclude ovviamente la responsabilità di una regia non sufficientemente matura e calibrata che tenta inutilmente l’impossibile per mantenere a galla una zattera che fa acqua da tutte le parti, attraverso la costruzione di una atmosfera certamente ambigua, ma esteriorizzata e piena di inutili “virtuosismi” che ottengono semplicemente il risultato inverso a quello desiderato - è attribuibile soprattutto alla sceneggiatura, fortemente “convenzionale” negli sviluppi nonostante le incredibili situazioni al limite che si ammassano le une sulle altre in progressione implacabile, decisamente sopra le righe, “urlata” e piena di “scontati luoghi comuni” e rimasticamenti, un vero disastro per un prodotto tutto giocato in superficie e privo di quella “profondità” di indagine che gli argomenti scottanti avrebbero meritato e richiesto. Se si analizza per esempio l’aspetto della pedofilia (che è appunto un elemento fondamentale di questo pretenzioso viaggio nei labirinti della mente) e si confronta con le dolorose introspezioni di “Happiness” di Tod Solondz, si ha la conferma palese del divario abissale che esiste fra trattare davvero un tema o sfiorarlo fra tanti altri con la volontà di “sorprendere” e basta (e il confronto ovviamente si risolve totalmente a sfavore di questo grandguignolesco compendio di devianze e imbecillaggini che vorrebbe “sconvolgere” ma riesce solo a risultare “indigesto”, sicuramente più “molesto” delle molestie che illustra e rappresenta). C’è semmai da chiedersi quali sono le ragioni che inducono Hollywood a rappresentare prevalentemente questi “medici delle anime”, gli psicanalisti, come disturbate personalità così problematiche e contorte, da meritare – loro per primi , e certamente con maggiori motivazioni di quelle che riguardano i loro “sfortunati pazienti”- il ricovero in strutture protette, visto che non solo non sono capaci di badare a loro stessi e alla loro famiglia, ma sono inclini a fare “danni” irreversibili tutto intorno e a creare traumi fra ingenuità comportamentali che rasentano la stupidità e azzardati disordini “viziosi”, comprensibili solo se non esistesse un regolamento deontologico sufficientemente controllato e una accurata “analisi” comportamentale superpartes che dovrebbe coinvolgere lungamente coloro che intendono intraprendere questo delicato lavoro di scandaglio della psiche (è come se gli autori avvertissero il peso e l’incongruenza della tendenza modaiola che snatura la psicanalisi “seria” da parte di un popolo portato a generalizzare sempre e comunque, e che appunto per questo, ameno per quanto riguarda le classi più elevate, ha ritenuto da tempo di “abusare” - un altro abuso, tanto per rimanere in tema!! – oltre misura del “metodo”, trasformandolo in una “procedura di intervento cautelativo” buona per tutte le stagioni,uno “strumento”con il quale si pretenderebbe di “tamponare” ogni possibile malessere non solo esistenziale (ed è ovviamente un paradosso del quale mi assumo piena responsabilità) compreso il mal di denti, e cercassero in un certo senso di prenderne le distanze demistificando la procedura e mettendo sull’avviso il possibile sprovveduto utente… che sono in effetti più elevati i fattori di rischio rispetto ai benefici possibili se si sbaglia il “manico” o si interviene a sproposito). Qui poi, dopo “tanta carne al fuoco”, si approda a un accomodamento finale decisamente “buonista”, una “ricomposizione” frettolosa e disturbante che tende a “rinormalizzare” il tutto troppo repentinamente e a ricucire con eccessiva facilità le ferite e gli strappi, con l’evidente intento di glorificare l’importanza della solidità della struttura familiare americana (che fa invece acqua da tutte le parti) e del ”rapporto” comunicativo quale unico cardine “difensivo” (o elemento catalizzante) per garantire la serenità tranquilla del quieto vivere che francamente – dopo quello che ci hanno fatto vedere – non sembrerebbe proprio così scontata e lascia davvero una vasta area di perplessità stupefatta e di insoddisfazione crescente. Volonterosa ma discontinua e “convenzionalmente manierata” la resa di tutti gli interpreti (sia nel bene che nel male): ciascuno fa quel che può e cerca di farlo al meglio, ma non sempre ci riesce pienamente (o almeno gli esiti non risultano ai miei occhi commisurati all’entità degli sforzi profusi) a partire dal “sofferente” protagonista Andy Garcia, che ce la mette tutta e si vede, ma si eleva solo di pochissime spanne sopra gli altri e non lascia il segno graffiante del dolore, che sarebbe richiesto.

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