Regia di Sameh Zoabi vedi scheda film
Charlie Chaplin sosteneva che: “per ridere veramente, bisogna essere capaci di prendere il proprio dolore e giocare con esso”.
Charlie Chaplin sosteneva che: “per ridere veramente, bisogna essere capaci di prendere il proprio dolore e giocare con esso”.
Tel Aviv on Fire - mi racconta il regista - parte proprio da questo presupposto. E’ un film profondo. Profondo e ilare. Ilare e intelligente. Intelligente e comico. Comico non per sminuire una situazione israelo-palestinese che è più difficile che mai, ma piuttosto per utilizzare gli spunti che l’iperbole comica può offrire.
Tema del film sono i punti di vista e le prospettive divergenti. Il personaggio centrale è un aspirante scrittore che lotta per far sentire la propria voce e trovare ispirazione in una realtà intrisa di politica.
Nell’ironizzare sull’impossibilità di essere liberi nella scrittura, e non solo in quella, in paesi in cui il controllo vige su tutto e tutti, il regista e sceneggiatore palestinese racconta le sue difficoltà in questo, usando attori perfetti tra cui Salem, il protagonista, una sorta di Mister Bean palestinese, maldestro, dinoccolato, che non ha successo con le donne, ma un cuore tenero lo ben predispone alla scrittura di una telenovela, inizialmente per il controllo della lingua ebraica e poi addirittura prendendo il posto della vera sceneggiatrice.
Facendo questo lavoro – racconta - si ha una certa responsabilità sia etica che politica e si ha la possibilità di sollevare quesiti che possono cambiare la situazione e lo status quo.
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