Regia di Sameh Zoabi vedi scheda film
Un cinema che attinge alla realtà e la filtra con vena sulfurea e divertita
Una soap opera al tempo della guerra dei sei giorni, un andirivieni febbrile al checkpoint fra Ramallah e Tel Aviv alla ricerca della svolta giusta per la storia del comandante Yehuda e la bella spia palestinese che deve rubargli piani strategici, una storia a puntate di spionaggio che finisce con fiori d’arancio e baci “arabi” (vedere il film per sapere come sono), una fiction che ogni sera inchioda ai teleschermi israeliani e palestinesi perché, almeno per mezz’ora al giorno, bisogna non pensare al muro, ai raid aerei, ai sassi e alle molotov.
La vena leggera che percorre Tel Aviv on fire è tutt’altro che irridente, c’è l’arguzia di chi usa il registro del comico per dire cose molto serie, e se si può stare da entrambe le parti con una fiction perché non provare a farlo anche nella realtà? Utopia, naturalmente, ma al cinema si può.
Tel Aviv on fire è il titolo dato al film da una fiction. Si pensa subito alle bombe leggendo il titolo e invece il campo si allarga e si scopre il set dove stanno registrando l’ultima puntata.
E’ una soap di grande audience che va avanti da tempo immemorabile, come ogni soap che si rispetti, e ancora ce ne saranno per la prossima stagione.
Salam, stagista imbranato ma esperto in ebraico, è presente sul set solo perché suo zio è il produttore e l'attrice, francese, non vapisce le battute. Per tutta una serie di peripezie e litigi fra i membri del cast si ritrova a dover scrivere lui tutta la sceneggiatura.
A corto di idee com’è, la sorte gli mette sulla strada Assi, rude comandante del checkpoint israeliano.
Da quel momento non ci saranno più freni per nessuno, saltano gli steccati politico/culturali, quel che conta è la strada da far prendere alla soap per arrivare al finale che piaccia al comandante e a sua moglie, e per questo si ricorre a tutto, perquisizioni, sequestro di documenti, mitragliette spianate, nulla manca perché la storia prenda il verso giusto, e infatti lo prenderà, con grande soddisfazione di tutti e un finale da Oscar delle soap (che devono ancora inventare ma tranquilli, arriverà anche quello).
Sameh Zoabi, sceneggiatore e regista palestinese, ha cercato una strada fin dai suoi primi lavori (il corto Be Quiet e il lungo Man Without a Cellphone ) che il Sundance e Locarno hanno doverosamente premiato, ed è quella del racconto leggero che si presta a decodifiche molto serie, perché prendersi in giro è cosa molto seria, come ben sapevano gli antichi e pare anche Molière.
Un cinema che attinge alla realtà e la filtra con vena sulfurea e divertita, dunque, e se la realtà è quella che è da fin troppo tempo, si può parlarne anche così e farla vedere tutta, e il lungo muro grigio tra Israele e Gaza con Salem che scorrazza sotto perché non è riuscito a passare dall’altra parte senza i documenti sequestrati da Assi che vuole un altro finale, e la miseria di certi quartieri dove l’Intifada ha momentaneamente sospeso le operazioni di lancio, e lo schieramento militare in perenne assetto di guerra per controlli quotidiani, assurdi, ottusi, insensati al checkpoint. Questo è quel mondo e lì tocca vivere.
E allora prendiamoci un po’ in giro senza far male a nessuno e rispondiamo come Derrida alla proposizione 7 del Tractatus di Wittgenstein: “Ciò che non si può dire, non si deve soprattutto tacerlo, ma scriverlo”.
E così Sameh Zoabi scrive, e può sembrare una sceneggiatura facile che strizza l’occhio alle platee dei festival.
Niente di meno vero, ridere fa pensare, mette alla prova, altera la realtà, la perverte, la usura.
Perchè, come diceva il buon Flaiano che di satira fu maestro,“la situazione è grave ma non seria”.
www.paoladigiuseppe.it
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