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No, il caso è felicemente risolto

Regia di Vittorio Salerno vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su No, il caso è felicemente risolto

di degoffro
7 stelle

Il brutale ed atroce incipit già ben dispone. E’ domenica pomeriggio. Fabio Santamaria, giovane trentenne, sta pescando solitario al lago di Grasciano (il film in realtà è stato girato sul lago di Vico, zona Viterbo), ascoltando alla radio, con le cuffie, le cronache delle partite. Il silenzio e la pace della campagna circostante vengono d’improvviso squartati dall’urlo di una voce femminile che implora aiuto. Fabio si alza di colpo e si incammina tra le alte fronde del canneto. Vengono quindi inquadrate le gambe nude di una donna che corre disperata nel canneto, con la camicetta slacciata, senza altri vestiti addosso a parte le mutandine, inseguita da un uomo di mezza età con in mano un bastone. La ragazza, una prostituta, viene raggiunta, cerca invano di liberarsi dalla presa del suo aggressore ma viene colpita senza pietà e con estrema crudeltà, ripetute volte, fino a che cade a terra senza vita. Fabio giunge sul luogo del delitto, osserva impietrito il corpo della donna morta a terra, quindi fissa dritto negli occhi l’assassino. Scappa via, sale sulla sua auto, una Mini Morris grigia e parte a tutta velocità. Intravede l’auto dell’assassino, una 124 bianca. Dopo aver tentato invano di impedire ad un furgoncino di avvicinarsi al canneto, si ferma ad un casolare per sciacquarsi il viso ad una fontana, sconvolto. Chiede ad un uomo del posto dove sia la più vicina stazione dei carabinieri. Quando intravede l’auto del killer, riparte in fretta e furia per rientrare in città. Si accorge che è seguito dalla 124 bianca, accelera il più possibile e riesce a seminare l’auto. Cerca di parlare con un vigile, ma l’intenso traffico di quell’ora lo fa subito desistere per cui preferisce ritornare a casa. Qui tenta di telefonare alla polizia ma la vicina bussa alla porta per informarlo che moglie e figlia sono al cinema. Salutata la vicina, Fabio fa di nuovo il numero di telefono della polizia, ma quando gli viene chiesto il suo nome riattacca. Fabio è nel più totale panico, distrutto e spaventato, non sa come comportarsi, cosa deve fare. Qualcuno però pensa bene di precederlo. Alle sette di sera, infatti, circa tre ore dopo il delitto, al commissariato di polizia si presenta un uomo distinto, ordinato, dall’aria intellettuale e seria. E’ il professor Edoardo Ranieri, insegnante di matematica e fisica al liceo classico. E’ l’assassino. Ranieri denuncia un violentissimo omicidio di cui è stato involontario testimone e fa un ritratto molto preciso e dettagliato dell’omicida, corrispondente proprio a Fabio Santamaria.

La forza e l’energia del film si ritrovano proprio nella descrizione credibile, senza respiro, a tratti quasi angosciante nella sua tambureggiante progressione, sorprendentemente sospesa però tra dramma e ironia (i commenti tra sé e sé che Fabio fa per descrivere la sua ingarbugliata situazione, i goffi e maldestri tentativi compiuti per sviare le indagini salvo poi peggiorare la sua condizione, i battibecchi con la moglie, interpretata da Martine Brochard) dell’incredibile paradosso in cui viene catapultato l’incolpevole e sfortunato protagonista, vittima dei suoi stessi errori, coinvolto in un incubo kafkiano dai risvolti sempre più incontrollabili e nefasti (un ritratto di cittadino comune, certo codardo e vile, ma soprattutto timoroso e spaventato dalle possibili conseguenze delle sue azioni e delle sue scelte, tutt’altro che campato per aria, basti pensare per esempio a quanto racconta l’importante “Testimone a rischio” di Pozzessere). Ed è molto riuscito il serrato confronto, prima a distanza poi ravvicinato, tra il pavido, dimesso, imbranato ma onesto ed innocuo Enzo Cerusico ed il freddo, avveduto, cinico e calcolatore Riccardo Cucciolla che approfitta in modo subdolo e senza scrupoli anche della sua “posizione sociale” e del suo modo di essere e presentarsi, puntando dunque tutto sulle apparenze che giocano solo a sua favore e a danno di Fabio, per mettere alle strette e vincolare inesorabilmente il sempliciotto e sprovveduto rivale al fine di usarlo meschinamente per il proprio laido tornaconto in un capovolgimento di ruoli piuttosto efficace ed intrigante (i volti e le interpretazioni dei due attori sono perfetti per i rispettivi ruoli, psicologicamente assai ben modulati e tratteggiati per un inevitabile ed immediato coinvolgimento emotivo dello spettatore che prova un’innata simpatia per Fabio). Più debole e forzata appare invece la parte del racconto che coinvolge il pur ottimo Enrico Maria Salerno, fratello del regista e in quegli anni specializzatosi fino a consumarsi nel genere, nei panni di un perspicace ed intuitivo giornalista napoletano che ha l’occhio più lungo della polizia, in un ruolo che l’attore ripeterà quasi identico, con i medesimi limiti narrativi, anche nel successivo “Fango bollente” (gli elementi da cui parte per ricostruire il caso e sospettare del professore appaiono francamente piuttosto deboli e confusi). Il regista (alla sua prima opera in solitaria, dopo aver co-diretto nel 1965 insieme ad Ernesto Gastaldi “Libido”) lavora con intelligenza e vivacità sulla sceneggiatura articolata e riuscita di Augusto Finocchi (un solo titolo di peso nel suo curriculum ma imprescindibile come “La mala ordina”), azzecca un paio di momenti di tensione veramente notevoli (il già citato incipit e un lungo inseguimento per le strade della città con Fabio che tenta in ogni modo di non perdere di vista il professore), evita, quasi sempre, sia la facile caricatura sia che il suo film si trasformi nella consueta denuncia sul malfunzionamento della giustizia, a costo anche di un finale eccessivamente buonista, rattoppato e sbrigativo (ma l’ultima spassosa battuta di Fabio che, al compagno di cella che gli chiede se domenica andrà di nuovo a pescare risponde: “Io a pesca’ non ce vado più manco coi carabinieri, ma la volete capi’ si o no?” si fa perdonare una chiusa accomodante forse non all’altezza che, va detto, è stata imposta dalla produzione, il film infatti avrebbe dovuto concludersi in modo molto più cattivo con il dialogo fra il giornalista ormai consapevole e il professore fuori dal Tribunale, dopo la condanna di Fabio, come ha dichiarato in seguito lo stesso regista), non rinuncia ad alcune pungenti, crudeli ma veritiere annotazioni sociali, sia pure in una contrapposizione un tantino semplicistica e risaputa ma sincera, privilegia saggiamente toni brillanti e divertiti (a partire dal titolo) a smorzare con brio l’amaro dramma della vicenda raccontata per un film classificabile più come salace e graffiante commedia di costume che non come arrabbiata e rigorosa opera di impegno civile con velenose accuse incorporate nello stile di Rosi, Petri o Damiani. Ottima colonna sonora di Riz Ortolani con i Nomadi a cantare la sarcastica ed appropriata “Mamma giustizia”. Voto: 7

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