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Il sacrificio del cervo sacro

Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il sacrificio del cervo sacro

di BigSur
6 stelle

Spietato teorema sulla crudeltà umana, il film di Yorgos Lanthimos è una dimostrazione di intenti più che un’opera cinematografica, la cui perfezione formale occulta pesanti ambiguità morali e cinico opportunismo. Ma si salva parzialmente grazie a un cast strepitoso

Una coltre di funereo moralismo è calata sulla Croisette nel 2017 spacciata per audacia autoriale. Quel che è peggio, il perseguimento estenuante di una perfezione formale da parte di parecchi realizzatori premiati a Cannes sembra essere la marca (anche nel senso commerciale) di un linguaggio cinematografico che non scava, non innova, ma si compiace del proprio estetismo virtuosistico. Con un simile approccio, le storie finiscono per galleggiare nella miseria umana con impudico cinismo senza che se ne sondino, a parte certe “spiegazioni” al limite del convenzionale, pulsioni e desideri.

Questa involuzione dello stile filmico è preoccupante e riflette una “gentrificazione del gusto” generale (rubo la definizione, non me ne vorrà l’ideatore) e del cinema d’autore europeo in particolare.

Sia chiaro, The Killing of a Sacred Deer non è il peggiore del lotto nel Palmares cannense – quasi un sole rispetto al repellente You Were Never Really Here di Lynne Ramsay – ma addolora di più rispetto ad altri per la sua degradazione vorticosa dopo le premesse ancora promettenti.

 

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Il film di Yorgos Lanthimos, lugubre pupillo dei festival internazionali, è in tutti i sensi più una operazione che un’opera cinematografica – e viene da credere che le crude immagini chirurgiche iniziali suggeriscano, per analogia linguistica, una confessione inconscia dell’autore sui suoi reali intenti (chissà se anche in greco il termine abbia questa duplice valenza come in italiano). Già il vortice citazionista che impregna ogni sequenza è un manifesto di estetica con il quale Lanthimos si autoproclama seguace ed erede dei grandi indagatori morali dell’arte cinematografica mondiale.

 

The Killing of… urla “Kubrick” ad ogni inquadratura. Già lo sguardo e la glacialità di Nicole Kidman impongono una referenzialità all’Alice di Eyes Wide Shut, e si prosegue con il giovanissimo Sunny Suljic, iconicamente un replicante del Danny di Shining persino nell’acconciatura.

(Breve parentesi su quest’ultimo: singolare è la sequenza in cui suo padre, Colin Farrell, sinistro chirurgo e motore della vicenda, gli intima di tagliarsi la zazzera quasi a volergli suggerire, metafilmicamente, di tagliarsi la referenzialità, di sbarazzarsi del modello. Ed è precisamente quello che accadrà visto il destino riservato al personaggio, non certo quello del sopravvissuto – in questo senso Lanthimos, mi vien da dire, è davvero mefistofelico).

 L’inchino al supremo autore di Arancia meccanica diventa plateale nella composizione delle inquadrature, nelle insistite e vorticose carrellate, spesso da altezze innaturali, e nelle prospettive distorte dall’utilizzo sistematico di focali ultragrandangolari, deformazioni che accompagnano il precipitare della famiglia Murphy in un incubo senza spiegazione né via di uscita ragionevoli.

In questo, la prima parte del film è esemplare. Lanthimos avanza inesorabile nel suo disegno disseminando schegge di rivelazioni e falsi indizi per avviluppare lo spettatore in un’angoscia tentacolare e soffocante.

L’irruzione feroce dell’irrazionale nella più empirica delle professioni scientifiche, quella medico-chirurgica, è per il realizzatore greco la lacerazione necessaria perché l’apparente perfezione della coppia di medici di successo Anna e Steven Murphy (bellissimi, ricchissimi, espressione del dominio di classe e della sua inattaccabilità), si sfasci per svelarne la mostruosità e, soprattutto, punirla contaminando il nucleo familiare. Lanthimos affida al soprannaturale, e alla corporeità straniata dell’adolescente malefico Martin (Barry Keoghan), tutto il suo livore per un’ingiustizia impunita che instilla freddamente nella narrazione come una pozione tossica.   

 

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Ma appena il dramma si svela, l’operazione è meno convincente, il funambolismo della manovra viene a galla.

Facciamo un passo indietro: davanti a tanta rincorsa impeccabilità, le cadute di stile sono imperdonabili. I primi minuti del film con lo schermo nero e la musica grave non sono omaggio kubrickiano ma la sua inconsapevole perfida parodia. Mi si perdonerà l’accostamento, ma ho istantaneamente pensato all’inizio di Lego Batman Movie: “Black. All important movies start with a black screen... And music... Edgy, scary music that would make a parent or studio executive nervous”.

E il problema non è solo l’inizio: la ridondanza della colonna sonora, le sue effrazioni didascaliche nei momenti drammatici, corrompono l’edifico luccicante della forma con un tempismo a metà strada tra l’irritante e il ridicolo. Ma questi sono dettagli.

Più il mistero si dipana e più Lanthimos dimostra di non essere interessato alla colpa e alle sue implicazioni etiche quanto piuttosto, e con ardore voyeuristico, all’espiazione e alla solennità del castigo. Da morale a moralismo, la linea di demarcazione si assottiglia fino a far crollare ogni assunto di autorevolezza. 

Lo squallore morale ostentato con compiacimento –  tra tutte, l’assai gratuita scena in auto tra Anna e il collega del marito per carpire le negligenze rimosse di Steven – dovrebbe farci riflettere sul marciume connaturato alla natura umana? Troppo facile e per lo più inefficace.

Non appagato, Lanthimos legittima la propria scopofilia per mostrare come la sessualità “bizzarra” dei coniugi Murphy sia l’indizio della loro perversità morale – un’attitudine che sfiora la bigotteria – ma si avvilisce a occultare le intimità della Kidman (certo, la star non avrebbe mai accettato di esporsi integralmente) dietro oggetti che s’interpongono nelle inquadrature, alla maniera degli anni Cinquanta: con ipocrisia diplomatica, dà un colpo al cerchio e un colpo alla botte.

 

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Le scene disperate di tortura fisica e psicologica, le patetiche strategie di sopravvivenza dei condannati alla maledizione, i calcoli spietati di chi ha la responsabilità di prendere decisioni inumane si perdono in un catalogo di sgradevolezze che culminano nell’atroce roulette mortale, epilogo sadico che sembra citare la crudele ambiguità accondiscendente dell’Haneke periodo Funny Games. Lanthimos vorrebbe scagliarsi contro l’indifferenza per la vita altrui, futile ostacolo al raggiungimento di un obiettivo personale, persino se di mediocre fattura, ma il suo stesso film gli si rivolta contro mostrando la superbia di questa sua gelida operazione, schiacciata da un opportunismo estetizzante e mortificante.

Malgrado queste gravi ambiguità, The Killing of a Sacred Deer mantiene un certo fascino crudele e il merito, oltre alla pregevole prima parte, va innanzitutto alle interpretazioni eccellenti del cast nella sua integralità. Colin Farrell, perennemente teso come una corda, fa un lavoro sorprendente con la voce toccando picchi prossimi al falsetto nei momenti in cui l’apparente padronanza di sé si sfalda inesorabile.

Il film celebra il ritorno di Nicole Kidman a un’antica grandezza che sembrava perduta per sempre: le bastano poche inquadrature, uno sguardo implacabile, gesti controllatissimi e lancinanti, per catturare tutta l’attenzione su di sé.

Si è già detto dell’incredibile performance di Barry Keoghan nel ruolo di Martin, a volte persino troppo barocca, ma il gioco di contrasti con le prestazioni sonnamboliche degli ottimi Raffey Cassidy e Sunny Suljic è di rara efficacia.

 

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E, riparlando di ritorni, non può che fare piacere la riapparizione folgorante di Alicia Silversone, l’inquietantissima madre di Martin, che in pochi minuti lascia il segno come una bella cicatrice a cui siamo affezionati. 

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