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L'adultera

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su L'adultera

di Aquilant
6 stelle

La metafora del tarlo che corrode in profondità il legno dell’immagine sacra rimanda direttamente alla condizione altrettanto precaria e perniciosa dei due protagonisti che vivono all’unisono la loro disadorna storia di (dis)amore morboso in quello che a torto è stato definito il più brutto film bergmaniano (privilegio che a nostro parere spetta di diritto allo scioglilingua “För att inte tala om alla dessa kvinnor”).
"L’adultera” era stato progettato in origine metà in inglese e metà in svedese. “Credo fosse meno insopportabile della versione in inglese dal principio alla fine fatta dietro pressione degli americani,” afferma lo stesso Bergman. “questa storia, che persi in questo modo, era basata per me su qualcosa di molto personale: la vita segreta degli amanti diventa a poco a poco l’unica vera vita, mentre quella vera diventa una vita d’apparenza.”
L’ombra di Lelouch si staglia a tratti su un fondale nero cartolinesco dove gli sguardi in soggettiva degli amanti danno vita all’esternazione dei propri sentimenti tramite vere e proprie letter(in)e declamate a viva voce tra una spruzzata e l’altra di sciropposo sentimentalismo, con lo spettatore chiamato suo malgrado a reggere il gioco. Ed in un estenuante tira e molla dei due amanti giocato sulle contrapposizioni piuttosto che sulle giustapposizioni delle rispettive (dis)affinità caratteriali e non, la tiritera narrativa potrebbe al limite continuare all’infinito, intessuta di sottili giochi d’infedeltà e rigurgiti di passioni malate celate dietro un rapporto travagliato che corrode le anime, conducendole man mano per contrasto a saldarsi sempre più l’un l’altra in una serie di situazioni che inevitabilmente finiscono col far emergere in modo prepotente l’irresolubilità delle soluzioni narrative adottate dal regista.
E per l’ennesima volta l’immagine allo specchio mette a nudo sia la sostanza intima dei personaggi che i rispettivi corpi avviluppati nella luce chiaroscurale che ne delinea con evidenza le fattezze smascherando nel contempo la fragile nudità interiore.
Bergman si attarda forse più del dovuto nel seguire passo passo l’instaurazione di un rapporto complesso, disarticolato, che nasce, vive e vegeta in una giostra incessante di umori e di rancori, di sussulti spasmodici e di repentini cedimenti, di sentimenti esasperati oltre il dovuto e di aneliti vitali soffocati dal soffio della noncuranza.
In sostanza “Beroringen” vuole essere la cronaca di un adulterio annunciato sul nascere, ovvero la descrizione di un’ossessione amorosa che si trasforma in malessere fisico e morale, la prova pratica dell’irrealizzabilità di un corridoio di reciproca comunicazione e comprensione nell’ambito dell’esistenza di una coppia estemporanea impietosamente usata a mo’ di cavia. Più in generale il film va inteso come un duplice fallimento dell’essere dentro e fuori del matrimonio, un pretesto per documentare l’approdo ad un punto di non ritorno dei cocci frantumati di due singole personalità smascherate e vaganti senza una precisa meta, costretti ulteriormente a sparpagliarsi in ogni direzione. In altre parole una sorta di apologo in immagini dove gli ultimi barlumi della dignità dell’individuo cedono irrimediabilmente il passo agli istinti della carne assuefatta alla noia.
Dopo l’exploit di “Persona” e la successiva performance in “Passione”, Bibi Andersson si tuffa con scarso entusiasmo nelle vesti di un personaggio controverso dalle motivazioni esistenziali non ben definite, pur finendo in ogni caso con l’offrirci una prova che va ben oltre la sufficienza e che sicuramente non smentisce le sue elevate doti d’interprete. Non eccessivamente convincente risulta invece Elliott Gould nelle vesti di un personaggio ricco di sfaccettature, non riuscendo a celare fin dalle prime battute una specie di malcelato disagio in una parte che si dimostra non essere nelle sue corde.
Un Bergman comunque minore, che mescola bizzarramente Bach e Mozart ad una sorta di musichetta pop più che altro indicata per qualche commediola americana di media levatura, ma che non si lascia irretire più di tanto dal potenziale miraggio costituito dagli stilemi hollywoodiani, oltretutto adeguatamente rassicurato dalla presenza di due suoi fedelissimi che riescono a fare la differenza. Perché Bibi Andersson a parte, la classe di Max Von Sydow non è certo acqua.

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