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La parola fine (7): Lost, Alias
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It ain’t over ’till it’s over: le estreme conseguenze 

 

1. L’agognata conclusione: Lost, Alias

 

Ci sono serie destinate, per la loro stessa natura, a trovare una conclusione. J.J. Abrams, sino alla sfortunata esperienza di Undercovers (Id., J.J. Abrams, Josh Reims, Nbc, 2010), bloccata dopo 11 episodi sui 13 girati, è sempre riuscito a portare a conclusione i suoi barocchi racconti seriali, sfruttando l’orizzontalità della narrazione e la sorpresa del cliffhanger come carburante costante di un motore alimentato dal mistero. Alias (Id., J.J. Abrams, Abc, 2001-2006) e ancor più Lost (Id., J.J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, Abc, 2004-2010) sono riuscite a portare al termine la storia, a dispetto di ogni iperbole cronologica o di violenza della logica. Le avventure dei rispettivi protagonisti hanno raggiunto il loro completamento senza oltraggiare la strutturazione interna del serial, basata sulla manipolazione temporale e sulla proliferazione dei cliffhanger, e la costruzione episodica, nel completo rispetto dell’impianto. L’epopea personale dei personaggi giunge al termine preannunciato sin dall’esordio (la ricerca di un sacro graal e di una pacificazione familiare in Alias,  la conquista e consapevolezza di una forma di libertà, entro i margini di un libero arbitrio assai ristretto, in Lost) con una corretta estrapolazione delle premesse, corroborata dall’andamento ininterrotto della narrazione in un’unica corrente trascinante.

La frustrazione di un’interruzione di Lost senza spiegazione finale sarebbe stata inaccettabile per gli spettatori, addirittura inconcepibile data la mole di materiale di supporto creata, di indizi esplicativi disseminati, di incitamenti alla condivisione partecipativa sollecitati. La fine, seppur dilazionata e nascosta dalle pieghe di un’imprevedibilità programmatica, si è resa appuntamento inevitabile proprio per la natura misteriosa e volutamente esoterica della serie. Lost ha addirittura condizionato la sua messa in onda portando l’emittente a scendere a patti con gli autori nel costruire un preciso conto alla rovescia fino al finale, con una scansione delle tappe di avvicinamento in base agli episodi programmati con tre stagioni di anticipo. La fine era diventata indispensabile alla narrazione, infittita dai continui misteri e da rilanci imprevedibili dell’azione gestiti con abilità e sadismo. Lost è riuscita così, grazie alla sua stessa natura, a forzare l’indiscusso modello di predominio del mercato, si è resa indifferente al calo degli ascolti o impermeabile ad un eventuale crollo di interesse precostituendo un calendario dell’avvento della conclusione, con relativa catarsi e risoluzione di ogni dubbio (o quasi).

Modello inarrivabile di creazione della tensione e di packaging pubblicitario destinato a premuore la serie stessa come prodotto, Lost è diventato un parametro di riferimento del processo narrativo convergente, coinvolgente diversi ambiti mediatici per creare interesse (e consenso) stratificato, programmando un coinvolgimento attivo del pubblico che ha creato un immediato e solido fandom di riferimento. Flash-Forward come anche il più recente The Event (Id., Nick Wauters, Nbc, dal 2010) sono esempi dell’impossibile applicabilità di Lost come semplice formula, una simulazione più o meno esplicita di un modello che ha illuso molti creatori successivi. Non basta l’imitazione se il contenuto non è adeguato alla forma e se l’arguzia introduttiva non è seguita da sagacia narratologica sufficiente da suscitare attenzione prolungata. E lo stesso Abrams ha finito per cadere nell’errore di vivere di rendita con Undercovers, rimasta monca del finale, mimando il plot di Alias (spie amanti in azioni perigliose) ma privandolo del motivo stesso del suo interesse, di fondamenta che affondavano nel mistero per erigere un edificio complesso sulla sua dilatata prosecuzione e mantenimento, che solo nell’agognata fine dava requie allo spettatore.

 

(to be continued)

 

 

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