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La bellezza del gesto
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Classifiche, liste, playlist. Watchlist, whishlist, Best of. Compilation. Discovery Weekly. Sembra che la lista, in forma di classifica o meno, sia lo strumento principale per cercare di fare ordine nel caos del mondo. Impensabile anzi un mondo, questo, senza. Ma attenzione, le liste stanno cambiando.

Quando nel 2001 Database ed io iniziammo a mettere su carta le idee centrali attorno al quale far nascere questo sito - come estensione del settimanale Film Tv - insieme alle classiche recensioni furono proprio le playlist ad assolvere alla funzione di segmentare la compattezza dell'archivio dei film che faceva parte del patrimonio della rivista. Al di là dei generi, degli anni e della nazionalità della produzione, macro-ambienti comunque utili per muoversi all'interno di un archivio composto (allora) da circa 35000 voci (oggi, incluse le serie tv sono quasi 80000), sentivamo l'esigenza di uno strumento che servisse da contenitore per raccogliere i film in temi, filoni, sottogeneri. Era un po' un salto nel buio, un tentativo, certamente ispirato da un libro che delle playlist, applicate all'ambito musicale, aveva fatto il suo centro, la sua modalità narrativa: Alta fedeltà di Nick Hornby, 1995.

Nello stesso anno viene fondato il W3C, ossia il World Wide Web Consortium, l'organismo non governativo - costituito da Tim Berners Lee, uno dei padri fondatori della rete - la cui principale attività consiste nello stabilire gli standard tecnici, i linguaggi e i protocolli con cui il web dovrebbe funzionare. In quell'anno c'erano solo dieci milioni di computer connessi alla rete. Oggi sono più di quattro miliardi.
Ma in una (breve) storia delle liste legate alla rete la prima vera sconvolgente pietra miliare fu Napster, anno 1999, duecento milioni di utenti connessi.
Qualcuno potrebbe contestarmi questa associazione Napster/liste ma al di là dell'incontestabile fatto che Napster servisse per scaricare musica sulla base di ricerche specifiche, ciò che di Napster mi faceva impazzire era la possibilità di curiosare nella cartelletta di musica condivisa di utenti sparsi in ogni parte del mondo. Bastava cercare un pezzo di musica non proprio pop, vedere chi lo aveva a disposizione ed entrare nel folder che lo conteneva. Quella cartelletta di musica condivisa associata ad un nickname era sinonimo di conoscenza, era contenuto ed era persona, era ricchezza di scelta e promessa di possibile sintonia. E anche di totale soggettività. Ed era anche sinonimo di errori e tentativi andati a vuoto. E ancora oggi quel che amo della lista è la sua umanità. E fallibilità.

Negli ultimi dieci anni, con lo sviluppo del web e delle intelligenze artificiali, con l'aumentare della capacità di calcolo dei processori, grazie alle valutazioni offerte dagli utenti incrociate tra loro, hanno iniziato ad apparire altri tipi di liste: quelle generate automaticamente dagli algoritmi. Egregiamente rappresentate dalla Discovery Weekly con cui Spotify propone ogni lunedì ai suoi abbonati una selezione di pezzi musicali sulla base di quel che il singolo abbonato ascolta, messo in relazione con quel che altre decine di milioni di utenti ascoltano e valutano. La stessa cosa ovviamente la fa Netflix, con la variante che i dati di gradimento o di visione servono poi al colosso statunitense anche per scegliere quali film e serie mettere in produzione dando vita ad un sistema circolare, apparentemente perfetto: investimenti garantiti dalla sacralità di macchine intelligenti.

Guardo le due liste dei migliori film del decennio della rivista Film Tv, quella dei critici e quella dei lettori invitati ad esprimere le loro preferenze, di cui parla anche Scapigliato qui sotto. Al primo posto in quella dei critici e al settimo posto in quella dei lettori c'è un film che davvero forse rappresenta molto bene quest'ultimo decennio, a partire dal titolo: Holy Motors, di Leos Carax.

Un film che si apre con una sequenza magnifica in cui un uomo, cioè il regista, si risveglia in una stanza da uno stato di sonno e si introduce all'interno della confinante sala cinematografica grazie ad un grimaldello innestato nella sua mano. Nella sala viene proiettato The Crowd, un vecchio film di King Vidor, la sala è gremita ma gli spettatori sono immobili, assuefatti, forse morti. Sono presenti ma sicuramente non guardano. Ad un certo punto, nella totale indifferenza, nel corridoio che separa le file di seggioline occupate da questi spettatori paralizzati, inquadrato dall'alto, si vede un bambino di due tre anni che sculetta nudo con passo incerto, seguito da un enorme meraviglioso cane nero che avanza con passo lento: portano la loro bellezza primitiva, animale, nella sala ricolma di spettatori dagli occhi chiusi.

È lì che si formula per la prima volta la domanda che rappresenta l'intero impianto teorico del film di Carax: a cosa serve la bellezza del gesto, se nessuno guarda? A cosa serve compiere gesti coraggiosi, folli, provocatori, indossare e sfilarsi maschere come fossero vite se poi le comunicazioni importanti avvengono tra macchine? O perlomeno vengono filtrate da macchine e da schermi? Come nella meravigliosa sequenza in cui Denis Lavant indossa una aderentissima tuta nera con i sensori bianchi che catturano i suoi movimenti e quelli della sua compagna trasformando i dati che provengono dalla loro sensualissima danza in un amplesso tra mostri, visibile attraverso un monitor. O cento. O mille.

In due sole sequenze per un totale di venti minuti circa Carax teorizza la fine del cinema e la fine dell'attore, del suo corpo, del significato del suo gesto.

Dati masticati da macchine sacre, governati da un algoritmo, riconfezionati in prodotti ad uso di un pubblico che non può vedere la bellezza del gesto che li ha generati. Che mio padre comprò.

Se non è questo il film del decennio.

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