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Esercizio No. 1 - bozza
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Lehava

Lehava

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Stanca di vedere quei pochi metri quadrati di soffitta occupati da cianfrusaglie polverose, libri mai letti o letti troppo, fogli sparsi, pezzi di mobiletti malmessi, scarponi da sci fuori moda e giochi di bimbi in una famiglia oramai sterile, la vicina del piano di sotto decise di sbarazzare tutto in una domenica d'autunno. Avanti ed indietro, avanti e indietro: dal quinto piano fino giù, sulla strada, ai cassonetti dello sporco. Incuriosita da un carico di quaderni, la fermai sul pianerottolo con la scusa di aiutarla: ma di chi è tutta questa roba? Mi guardò un po' sconsolata: Della mia figlia maggiore: la conoscete, no? Viene ogni tanto a trovarmi. Si è sposata vent'anni fa, ma mica si è portata dietro tutti quegli appunti dell'università. Sospirando aggiunse: Nella mia soffitta, ecco, nella mia soffitta sono rimasti, quelli. Ma adesso basta. Libero tutto. Tutto in pattumiera. Mi guardò da dietro quelle lenti spesse e sorrise: I figli. Se ne vanno, ma ti restano sempre attaccati. Lo vedrai tu, con quel ragazzino vispo che ti ritrovi: i maschi sono persino peggio delle femmine. Mi indicò un plico per terra: avrei dovuto accompagnare il poveretto all'estrema rottamazione, giusto fuori dal contenitore della indifferenziata che ora era già colmo. Sulla cima notai subito un fascicolo azzurro. Mi abbassai e lo aprii: centinaia di pagine in bella grafia, alcune fotocopie incollate, date e schemi

Signora Benedetta, posso tenerlo io, questo? Rispose distratta: Certo che sì. Io butto tutto: se lo vuoi, prendilo. Capii subito, dal tono di voce, che trovava la richiesta stramba. Non più stramba di quella ragazza curiosa ed invadente quale mi giudicava, ne ero certa. Assomigli alla mia prima figlia, sai? Tutte e due studiose e chiacchierone. L'affermazione arrivò inaspettata: non avevamo mai avuto confidenza, io e lei. Solo sporadici convenevoli. Tra l'altro, quella figlia, proprio non la ricordavo. Presi i fogli sottobraccio e infilai le scale, lasciando il plico per terra. Ma come? Non mi aiuti più? Esclamò un po' sorpresa. Mi scusi tantissimo, mi sono ricordata che è tardi e devo proprio studiare per l’esame: mi resta una sola settimana. E poi devo prendere il bambino all'asilo. Mi congedai sbrigativa e colpevole. Ero già quasi in casa che sentii il portone del condominio sbattere e dietro dei mugugni: la signora si lamentava non avessi neppure fatto la fatica di tenere l'ingresso spalancato. Una maleducata, insomma. Forse lo ero. Ma dovevo pur prendermi quei minuti, prima che la casa mi si riaffollasse, con il piccolo ed il marito. Appoggiai il quaderno sopra il Segre. Lo sfoglia: era intatto. Neppure una pagina strappata o stropicciata. Le copertine attaccate con la colla per aggiungere spazio. Il ritmo uniforme. Le distanze fra le parole irregolari ma quelle fra gli argomenti armoniche, in un concerto di vocali e consonanti morbide e vezzose. Uno stile anarchico e gradevole.

Mi resi conto che non era italiano: il testo era in inglese. Certo che l'avevo studiato l'inglese: alle scuole medie e superiori. Non abbastanza per comprenderlo fluentemente, però. Lessi alcuni nomi propri, facilmente individuabili dalle maiuscole. Sostantivi ripetuti. Osservai la disposizione delle parole sulle fotocopie, e mi resi conto che l'argomento doveva essere inerente ai testi sacri. Qualcosa a che fare con la teologia, la filosofia, o forse la linguistica. Mi chiesi se questo fosse sul serio tanto importante: non era una questione di contenuto, per me. Ma di forma. La pagina era così curata! Mi commossi persino. Io che avevo conosciuto un mondo a penna, e che mi ero ritrovata trentenne a combattere per un titolo di studio del tutto inutile in una realtà fatta di scrittura al computer, veloce ed efficace. Fin troppo. Che qualcuno avesse riposto tale cura nella compilazione esteticamente ineccepibile di appunti universitari, mi parve un miracolo da Medioevo illuminato. Che qualcuno avesse riposto tale attenzione nello studio di una materia assolutamente fuori tempo massimo e sommamente superflua nell'economia personale e sociale, altrettanto. Ripensai con nostalgia agli anni in cui pure a me era concesso il privilegio della lentezza e della inutilità. Non era solo questione artistica: troppo facile. Avevo sempre diffidato persino dell'arte, che, gratta gratta, una qualche finalità in fondo ce l'ha quasi sempre. Sia essa espressione dell'ego, esposizione di un credo, alimentazione di un mercato, più semplicemente creazione di un pubblico. Qui eravamo oltre: il piacere del bello in quanto tale e ad uso e consumo solo ed esclusivo dell'autore dello stesso. Pagine e pagine di appunti privati, per una materia che non avrebbe avuto nessuna applicazione pratica e che di sicuro non avrebbe smosso neppure gli animi dei cultori più ardimentosi, appunti che sarebbero finiti in soffitta e poi, tragicamente, nel cassonetto dello sporco. Mi sentii un'eroina: io li avevo salvati dall'oblio, io li avevo resi ciò che non avevano dovuto essere: emblematici. Nel mio sguardo essi avevano ritrovato una vita mai avuta. Non ci pensai due volte per completare l'opera: li avrei condivisi, nell'unico modo che conoscessi. Cioè, sulla rete. Proprio l'insensatezza del pensiero e del gesto che stavo per compiere mi affascinava. Inutile come inutili erano loro: le note in bella grafia. Inutile per loro, le pagine, che anzi, mai avrebbero pensato di finire così. Inutile per me, che invece di ottimizzare il tempo fra fornelli ed esami di Letteratura Italiana-inutili pure quelli-me ne stavo a ragionare dei massimi sistemi guardando il soffitto. Inutile ed insensato, più che mai, nell'unica community che frequentassi, che parla di cinema. Mi scervellai per trovare una qualche giustificazione per la pubblicazione. Non mi venne nulla di meglio che una divagazione sul valore della scrittura. Scrittura come atto fisico e passionale: come creazione artistica ma non nel suo contenuto, bensì nella forma. Ovviamente, non potei non pensare a quando, ragazzina, entrai per la prima volta nella Long Room a Dublino. Un odore di legno e carta: l'odore del sapere, pensò allora quella quindicenne. Anche qui, fu l'impatto visivocomplessivo ad emozionarmi: quella fuga di nicchie cariche di libri. In fondo, la fila verso la teca: io, un pezzo della catena davanti al prezioso Book of Kells. Che non sapevo neppure di che parlasse, e di certo non ero in grado di leggere in grafia insulare. Ma che ammiravo entusiasta nelle decorazioni intricate ed ardite, vigorose e sanguigne: In principio erat Verbum. Oro e porpora: cerchi, spirali e giochi geometrici a tasselli incastrati, come fossero marmi. Lettere nere ed un serpente verde stilizzato sul fondo- o almeno a me parve tale - ed in alto due uomini, uno più grande che osservava noi lettori ed uno più piccolo in dotto dialogo con un animale. Sarà stato un caso che il folio esposto fosse quel giorno il 292? L'incipit del Vangelo di Giovanni. L'illuminazione cinematografica per il mio post. Sarebbe stato "Il nome della Rosa"! Lo scriptorium. Naturalmente, Guglielmo proveniente da una fantomatica Baskerville, lui così somigliante a quell'altro Guglielmo da Ockham, entrambi portatori di una tradizione magnifica che fu quella del monachesimo delle Britannie. Che si può ancora respirare, non tanto nelle affollate Monasterboice e Mellifond e neppure sulla rocca di Cashel forse, ma più nelle rovine cistercensi di Jetpoint, Moyne, Quinn, Hore, nella francescana Timoleague adagiata imperiosamente in rovina sulla baia di Courtmacsherry dove l'acqua si trasforma in fango e poi torna di un blu intenso a seconda delle maree. Nell' eremitica e boscosa Glendalough o a Clonmacnoise, fulgida sulla collina che guarda lo Shannon, fondata da San Ciaran solo una trentina d'anni prima che nascesse San Colombano, monaco missionario, abate, precursore della regola benedettina, discepolo di Sinneill compagno di studi di Columba da Iona, amico di San Gallo, fondatore di Luxeil, San Martino di Tours, Bobbio naturalmente. La mia amata Irlanda e lo scriptorium: la fatica e l'estasi. La trasmissione del sapere, la missione silenziosa e spesso anonima del recupero della nostra identità e nel contempo la costruzione di una nuova: tutto questo, impreziosito da una ricerca estetica estrema. Non solo scrittura, ma anche pittura e disegno: affinché il testo fosse ciò che di più bello e sorprendente l'occhio umano avesse mai potuto osservare. Perché il santo contenuto fosse esaltato da una forma niente meno che straordinaria. Esultai. Ma per che cosa? L'enfasi mi aveva portata troppo lontano: come ero arrivata fino a lì? Addirittura sulle sponde dell’Atlantico? Stavo forse paragonando quattro righe scritte con la Bic agli amanuensi medievali o la Bibbia a vuote osservazioni linguistiche ad uso scolastico? Confondevo utilità ed inutilità? Mi spaventai quasi, provando una sorta di ribrezzo per la facilità con la quale la mia mente sviava dalla retta via, seguendo ricordi romantici di viaggi passati, suggestioni, nostalgie dei buoni tempi andati ora che la mia vita aveva preso un'altra piega e lo studio era diventato più che altro un diversivo ed insieme un obbligo per pigliare almeno quel mitico pezzo di carta. Poco era rimasto di ciò che fu: rifugio nella tempesta, spazio privato di libertà. Affogai quell’accenno di rimpianto nel biasimo: ero proprio io che stavo paragonando quattro righe scritte con la Bic agli amanuensi medievali. Confondevo necessario con vano. Che dovevo fare dunque? Fermarmi qui? Strappare il quaderno? O invece proseguire con quel post sul valore oggigiorno superfluo della bella grafia? Avrei dovuto di sicuro citare "Hero": e non sarebbe stato affatto semplice considerando il mio digiuno totale di cultura cinese - e non è che si possano improvvisare certe cose. Meglio con i "I racconti del cuscino": digiuna altrettanto di cultura giapponese, ma almeno qui potevo accampare la scusa del punto di vista occidentale essendo Greenaway di Newport, fumoso agglomerato urbano oltre il Severn Bridge che divide Inghilterra da Galles. Non ero convinta: quella struttura mi pareva fragile ed intricata. Poco esemplificativa, e soprattutto tragicamente simile ad un vecchio scritto: //www.filmtv.it/playlist/43324/uomini-che-odiano-le-penne/#rfr:user-41713

Ero ad un punto morto. Dovevo ripartire da capo, ammisi sconfortata. Fu allora che guardai l'orologio sulla parete sopra il televisore: mi venne un colpo. Già le cinque e mezza. Avevo il bambino all'asilo, cavoli! Dovevo correre a prenderlo, passare al supermercato e da mia madre che non era stata bene nella notte, e poi sarebbe rientrato Marco: uno straccio di cena dovevo pur tirarla insieme. Mollai gli appunti sul tavolo lasciando acceso il pc e mi precipitai giù nel parcheggio: non c'era più tempo per divagazioni. Ero chiamata all'azione. Beh, pure battere i tasti è un'azione. Pensai in quel tragitto di pochi chilometri fino alla scuola materna. Ok, adesso però basta. Chiuso lo scomparto pensieri insensati. Ne devo aprire un altro: azioni basilari. Aprii di scatto la porta ritrovandomi nell’androne d’ingresso. Giovanni mi venne incontro correndo: un balzo e mi fu in braccio. Lui non è inutile, mi dissi. Lui è la cosa più utile che abbia mai fatto. Può essere persino sia l'unica: ma è almeno una. Lo riempii di baci, trovando conforto nel suo profumo di bimbo ed ogni dubbio si scioglie in quell'unica morbida, chiassosa certezza.

Fu sul tardi che la mia testa tornò a rimuginare. Appoggiata sul cuscino, non riuscivo a bloccarla. Nel buio e nel silenzio, ribolliva più che mai di connessioni. Chiusi gli occhi e la lasciai lavorare. Era qualcosa che avevo imparato fin da ragazzina: il sonno ti suggerisce spesso ciò che la veglia ti preclude, stretta fra razionalità e contingenza. Avrei dovuto aspettare i sogni o forse, quella condizione miracolosa fra veglia e assopimento. Mi rilassai finalmente, serena e fiduciosa. Era già mattina quando un rumore di vetri mi svegliò: stava passando quel maledetto furgoncino della raccolta porta a porta. Ogni giovedì, la stessa storia. Dopo il trambusto del rovesciamento dei bidoni, una sgommata e via, verso la casa successiva. Percepii distinti i movimenti che Gio' stava facendo nel suo lettino: aspettai che sgattaiolasse infilandosi fra noi, ed invece, dopo pochi stropiccii, ripiombò nel silenzio. La luce fioca di settembre penetrò dallo spiraglio della porta. Mi ritrovai occhi spalancati a guardare il soffitto che pareva tra un grigio inconsistente ed l'antracite: l'ombra del lampadario. Fu allora che mi assalì una sensazione: non proprio un ricordo, più una sensazione appunto. Avevo sognato qualcosa in bianco e nero. Poco per volta le immagini tornarono, anche se non mi fu mai ben chiaro quali fossero state effettiva parte della visione notturna e quali frutto della suggestione vigile. Un viottolo di campagna che si snoda fra radi alberi dentro una luce che pare solida all'orizzonte, chiara di nebbia e scura di nuvole e poi un bosco fitto, di rami arditi ed intricati, sospeso nel nulla lattiginoso di un pomeriggio d'autunno (perché nei sogni si è certi di sapere anche ciò che nei sogni non compare ed io sapevo fosse autunno) e pervaso da un profumo di muschio bagnato, come dopo un temporale (perché nei sogni si è certi di sapere anche ciò che nei sogni non compare ed io sentivo quell'odore di umido, di terra e di velluto verde e fragile). All'improvviso una stanza piccolissima e spoglia, senza nessuna finestra. Quadrata. Appeso al muro il mio quaderno! Il quaderno con gli appunti in inglese! Il suono acuto del cellulare mi risbaldì: era la sveglia. Saltai fuori dal letto veloce: cominciava una nuova giornata. Aprendo le persiane: Marco, sai che ho fatto uno strano sogno? No dai, la mattina appena sveglio non lo voglio sentire. Fammi andare in bagno. Cavoli sono le 7, ti avevo chiesto di svegliarmi prima, ho gente che mi aspetta in cantiere! Infilò un paio di pantaloni ed una maglia e se ne andò senza neanche un ciao. Certo, lui tiene in piedi le case ed io, che faccio? Tengo in piedi questo nostro mondo precario, no? Lavo, stiro, cucino, gestisco il bambino. Che vuoi di più da me? Nulla. Lui non vuole nulla: sono io che voglio di più da me. Le prime ore scapparono via come sempre tra supermercati, lavori domestici e Gio'. Avevo un appuntamento con Martina subito dopo pranzo. Giusto per un caffé veloce al bar. Arrivai in ritardo come sempre, neppure pettinata. Lei, perfetta: fatti dare un bacio, disgraziata che non ti fai mai sentire. Mi era mancata: tra ferie ed inizio scuola non la vedevo da due mesi. Lei si sedette decisa al tavolino in fondo alla sala, tirò giù gli occhiali da sole e guardandomi con quella sua aria perennemente scanzonata mi disse: allora, com'è che oggi avevi tanta voglia di vedermi? Feci qualche preambolo cortese: come stai, come va, cosa mi racconti dell'azienda. Non ascoltavo le risposte e lei se ne accorse subito: allora, veniamo al sodo, problemi con Marco? Ma va', che problemi vuoi che abbia con Marco? I problemi io ce li ho con me! Martina non fiatò: era il suo modo per lasciarmi lo spazio ed io lo presi tutto. Ho trovato casualmente un quaderno. Nulla di straordinario: una cosuccia carina e ben scritta. Te la mostro, mi sai dire di che parla esattamente? Martina prese tra le mani i fogli. Un minuto o due, sfogliò, si fissò sul fondo. Alzò la testa e sorrise: la traduzione della Bibbia in Old English. Dubbi linguistici per un inglese ancora in divenire. E teologici pare, in epoca già protestante ma con luteranesimo e anglicanesimo non ben definiti. Soggetto noioso, cara. Del tutto inutile. Ma c'è ancora chi studia 'ste cose? Oddio, a parte qualche professore universitario in cerca argomenti da propinare a studentelli indifesi, alcuni dei quali potrebbero perfino infilarsi in un dottorato senza prospettive? Eccola, la mia amica: un carro-armato. La mia spalla, la mia salvezza, il mio buonumore. Cercai di essere esplicativa e conciliante: in verità, anche io ho pensato esattamente questo! Chi mai spenderebbe del tempo utile per un argomento simile? Però guarda. Guarda il tratto. L'attenzione a non commettere errori di ortografia che obbligherebbero all’uso del correttore. Lo stile discontinuo ma bello. Insomma: che senso ha farsi venire il mal di mano copiando centinaia di pagine ad uso e consumo personale? Gli appunti sono disordinati! Li si può sistemare, oddio. Certo, chi contesta il fatto che si possano pure riscrivere? Ma dove sta' l'utilità? Dimmi Martina, dove sta? Dovevo sembrare abbastanza disperata perché scoppiò in una risata sonora: cara, io fra mezz'ora devo rientrare in ufficio, quindi sarò breve. Qui di inutilità si tratta, appunto! Inutilità totale. Convinta. Ma soprattutto consapevole. Se una ragazza spende tanto tempo nella redazione manuale è perché crede nella materia. E' evidente. Mi segui? Già qui siamo nell'assurdo: si può studiare qualcosa per obbligo, persino per diletto. Crederci ti pone ad un livello superiore. Lei ci crede, nella sostanza. Non tutti i soggetti sono uguali: uno è giusto che creda nella medicina. Nella anatomia. Nella chimica. Nell’economia. Persino, in fondo, nella letteratura o nella filosofia. Giù giù giù si arriva alle materie meno convincenti: quelle naturalmente elitarie e superflue. Questa è una di quelle. E guarda un po’ come ci crede nella forma, pure! Vogliamo parlare dell’ordine asimmetrico nelle lettere, delle maiuscole svolazzanti, di quell’unico nero elegante, delle sottolineature con il righello? Quanta fatica sprecata! Mi sentii punta sul vivo: sentendomi di dover difendere una scelta che sempre più percepivo essere anche mia: Qui ti sbagli, Martina. Che ne sai tu, se tutta quella fatica è sprecata. Metti mai che questa ragazza oggi faccia la docente universitaria: dall’approfondimento di una materia magari marginale ci ha ricavato un posto fisso. Sul serio ci sono soggetti nei quali è giusto credere ed altri che è bene tralasciare? Cavoli, proprio tu lo dici, tu che come me ha sudato sette camicie in quel cavolo di liceo! Bella cosa la fisica: Fermi ci si appassionò così tanto che inventò la bomba atomica. Io mica sono così sicura l’umanità ci abbia guadagnato. Forse se si specializzava in teologia era meglio. Sono confusa: non so perché sono ventiquattro ore che non penso ad altro. Ci si è messo pure il sogno stanotte. Martina scosse la testa: Quale sogno? Le raccontai ogni particolare della mia strana visione. Lei rimase silenziosa ed assorta: poche volte l’avevo vista così concentrata. Tirò fuori dalla borsetta il lucidalabbra e se lo passò veloce: Hai ragione. Lo devo ammettere, hai ragione. E’ già l’una, io dovrei tornare in ufficio, fammi fare una telefonata che avviso di un piccolo ritardo. Qui la situazione è grave: quando mai ci ricapita un argomento così scottante? Dai, la prof di filosofia sarebbe orgogliosa di noi. Non capii se stava dicendo sul serio o scherzasse. Fatto sta che si alzò con il cellulare in mano, digitando veloce il numero e si allontanò dal tavolo. In un minuto fu di ritorno, riprendendo il discorso da dove l’aveva troncato: Hai ragione. Noi non possiamo conoscere l’esito a posteriori di una nostra scelta. Certo, possiamo ipotizzare. A volte le conseguenze sono ovvie e scontate. Ma, no. No. Quella negazione fu perentoria ed io presi la palla al balzo per proseguire: infatti. Che una scelta sia giusta o sbagliata, utile o inutile, è solo il futuro a confermarlo. Quindi, in senso assoluto, utilità ed inutilità restano condizioni momentanee e soggettive. E’ evidente che chi studi medicina fa “qualcosa di utile”, più che non uno che si scervelli nello studio di Hegel e Adam Smith. Il primo, che diventi un bravo dottore o meno, faccia ricerca, lasci da parte tutto per comprare un chiosco a Bali, comunque, si è impegnato per qualcosa praticamente necessario. Siamo tutti d’accordo. Ma se il secondo riesce in tarda età a far pubblicare una sua opera e quella si chiama “Il capitale”, avrà pure lui avuto un qualche valore nel senso globale del nostro stare al mondo? Nel bene, nel male, boh? E allora: studiare come la Bibbia venne tradotta in inglese antico non risolleva le condizioni di miseria nel Quarto Mondo o non formulerà nuove teorie economiche o non farà scoprire la cura contro il cancro. Ma chi siamo noi per contestarne l’utilità? Magari la studentessa che ha redatto quegli appunti ora è docente associato, grazie all’appoggio proprio del professore di Storia della Lingua Inglese, e magari oggi, grazie alle competenze acquisite o grazie a quello stipendio che le permette di sopravvivere sta’ scrivendo il romanzo che rivoluzionerà linguistica, letteratura, filosofia, dando il la ad una rivoluzione culturale e bla bla bla. Ero quasi invasata, sentivo il tono della mia voce alzarsi: oppure, fra mille anni, quando si sarà dimenticata la scrittura manuale, il ritrovamento di quel quaderno seppellito dietro un cumulo di mobili farà gridare al piccolo miracolo estetico. Martina rise: dai, non esagerare! Adesso stai delirando. Però ho capito: il concetto mi pare sensato. Presuntuoso e pretestuoso definire ciò che è utile ed inutile nel momento stesso della scelta, della decisione, dell’azione, chiamala come vuoi! Preservando la ragione ragionevole che ci dice che è buona cosa studiare ingegneria perché le case stiano in piedi e gli aerei diventino sempre più veloci, anche i sostenitori estremisti della scienza sopra ed a esclusione di qualsiasi altra materia confermerà l’importanza di addentrarsi nella sociologia se poi uno studentello che ti cita Omero a memoria crea Facebook e rivoluziona le relazioni umane che di sicuro si può vivere bene anche senza, ma visto come si è messo il mondo chi può oggi pensare di ritornare indietro? Mi resi conto che qualcosa non tornava nei nostri ragionamenti ma non riuscivo ad individuarne la causa. Come pensatrici avevamo bisogno di migliorie strutturali. Di sicuro eravamo a corto di esercizio: io travolta dalla vita familiare, Martina dalla carriera. L’abitudine alla speculazione non si improvvisa, pensai fra me e me, osservando il bel volto di fronte farsi tutto ad un tratto inquieto: era evidente che la mia amica non avesse molto altro tempo a disposizione e volesse chiudere la partita con grazia. Riattaccò: cosa tutto questo c’entri con noi, cara, io non lo so. Devo farti una confessione. Esitò solo per un istante: Te lo ricordi Gianluca? Fui sorpresa da quell’improvvisa virata e presa alla sprovvista non potei far altro che rispondere: quello che lavorava nell’editoria, che pensavi ti tradisse ed invece negò fino all’ultimo ed aveva moglie e figli? Pronunciai la frase tutta d’un fiato, con una buona dose di livore. Martina era stata molto male per quella storia: ricordavo i pianti, la delusione, i suoi silenzi di quel periodo. Avevo una cordiale antipatia per il soggetto, per altro, mai incontrato. Martina annuì e con un tono insolitamente sommesso aggiunse: a volte, non ci sono spiegazioni. Ecco tutto. Se ci penso oggi, faccio fatica a trovarne: non sono convinta Gianluca allora mi piacesse così tanto. Era fuori da ogni mio schema: lo avrei strozzato il più delle volte. Parlava ma io non capivo bene quello che mi dicesse. Intellettualmente affascinante, ma io ero troppo giovane. Di vantaggi pratici, pochi. Dovevo sempre inseguirlo, e lo capii troppo tardi il perché. La passione? Ma se non aveva mai tempo! E pure qui, avrei dovuto farmi qualche domanda. Quando non ne potevo più, però, chissà perché la storia ripartiva sempre da un punto diverso. Come se girasse in tondo o fosse una corsa a tappe. Un gara ad ostacoli dove i paletti venivano piazzati o da me o da lui: ci cadevamo sopra ed un attimo dopo eravamo pronti a rialzarci con gesto ginnico e via, che si ripartiva. La metafora mi sembrò subito assurda. Perché Martina fosse arrivata a parlare di quella sua vecchia relazione, altrettanto assurdo: ma cosa c’entra Gianluca in tutto questo? Lei sorrise: appunto, a volte, non ci sono spiegazioni. Le cose si fanno perché si sentono di fare. Chiamalo pure, gesto d’amore. Inutile gesto d’amore. Il mio telefonino vibrò: era un messaggio di Marco. Non lo lessi subito, ma il suono mi richiamò comunque allo schermo: era l’una e mezza. Maledettamente tardi, dovevo tornare a casa. Avevo montagne di vestiti da stirare e speravo di dedicare un’oretta o due allo studio. Mi alzai e Martina con me. Sorridendo mi passò una mano sulla spalla, in gesto affettuoso: riassumendo, ti è partita una mezza psicosi per un pezzo di carta ben scritto. Te lo sogni pure la notte appeso ad un muro, come i fotogrammi di un film. Siccome non voglio che ti ricoverino in manicomio, e qui strizzò l’occhio, ti aiuterò, quantomeno, a capire di che film. Così sarai più tranquilla: ti conosco: hai solo bisogno di spiegazioni. Rimugini, e poi ti quieti. Annuii: è una sciocchezza, lo so, darsi pena per qualcosa che in fondo esiste solo nella mia testa. Ma non riesco a fermarla, questa maledetta testa. Mi diedi qualche botta sui capelli. Lei me li accarezzò: non metterteli in disordine, cavoli. Non più di quanto già non lo siano. Sento Gianluca, che è lui l’esperto, e ti faccio sapere. Mi tirai indietro improvvisamente: Gianluca? Come Gianluca? Ma, ma se stai con Mario adesso? E poi, Gianluca avevi detto che non l’avresti più considerato? Perché non me lo hai detto, e poi, detto cosa? Vuoi che ti ricordi il cuore spezzato, il tuo cuore spezzato? Adesso ero quasi arrabbiata. Martina fu frettolosa ed inconsistente: lo so che lo dici per il mio bene. Ma che ci vuoi fare? A volte, non ci sono spiegazioni. E neppure utilità. Le cose sono come sono. Cerchiamo di preservarci, ma mica possiamo annullarci. Stai tranquilla: c’è Mario a proteggermi. Ero scocciata, l’avrei tempestata di domande ma capii che non era il caso: stava già infilando la porta. Sui gradini dell’uscita si voltò e disse lapidaria: perdonami. Sono seria. Ma chiamalo, se vuoi, amore. Mi abbracciò e salì veloce in macchina. Io entrai nella mia Yaris e mettendo in moto ripassai appuntamenti e obblighi della giornata cercando di scacciare il malumore. La risentii il giorno dopo, per telefono. Sbrigativa ed ironica come sempre: ehi tu, scrivana fiorentina, come butta? Senza aspettare la risposta proseguì: sentito Gianluca. Raccontato il sogno: bianco e nero, ombre e luci, una campagna povera, alberi aggrovigliati, nubi su un orizzonte piatto. Una stanzetta piccola e disadorna, il tuo quaderno appeso alla parete a mo’ di crocifisso. Gli ho raccontato un po’ di te, non ti dispiace vero? Altrimenti, che ne potevamo ricavare? Mica siamo psicologi! Poi però mi ha citato un film e sai che me lo sono ricordato pure io? La Menzini ce lo fece vedere un giorno, e ne parlammo poi, questione etica, colpa e giù di lì. Sai che lei era tutta di Chiesa, una palla micidiale che i maschi dietro si addormentarono quasi. Noi invece ci commuovemmo pure un pochino. Esitai mormorando: “Diario di un curato di campagna”? Lei rise: indovinato. Pare che dal cilindro della tua immaginazione sia venuto fuori quel ricordo di seconda liceo. A meno che tu non l’abbia rivisto poi, ovviamente! Attese in linea e questa volta risposi veloce: no, non l’ho più rivisto. Però. Cercai di ricordare perché quel titolo mi sembrasse assai più vicino nel tempo che non reminescenze scolastiche. Di botto esclamai: ma certo! Martina, sei un genio. Gianluca è uno stronzo probabilmente, ma è un genio pure lui. Siete due geni. O due pazzi scatenati. O due innamorati impossibili. Fatti vostri. Ma io, due estati fa, stavo facendo un giro con Marco e Gio’ al mercatino del giovedì di Punta Marina. Avevo bisogno di un libro per la spiaggia, ma non riuscivo a trovare nulla. Mi fermo in una bancarella dell’usato e passo in rassegna un mucchio di volumetti economici di seconda mano. Mi trovo il Marchese de Sade da un parte, e Bernanos dall’altra. Martina sbottò: e chi è questo Bernanos adesso? E’ l’autore de “Diario di un curato di campagna”, ignorante! Ribattei con gioia. Una gioia innaturale ed immotivata, che mi tenni proseguendo: insomma, stavo lì con sulla sinistra de Sade e sulla destra Bernanos, non sapendo quale acquistare. Costavano talmente poco che li avrei potuti prendere entrambi ma l’ambulante mi guardava, avevo fretta di raggiungere Marco che si era allontanato con Gio’ nel passeggino, insomma, alla fine, pago Bernanos soltanto. Soddisfatta, mi concentro sulla copertina impressionista. Il giorno dopo mi immergo: capisco subito che è stato un azzardo. Mi ci vuole concentrazione e tra i bambini che gridano, il gran caldo, le musiche della babydance puoi immaginare come la situazione mi sfugga di mano. Insomma, Bernanos si ferma a pagina 40 e si accomoda in valigia. Oggi sta su uno scaffale: chi mai se ne ricordava più? Martina, ma secondo te, che senso hanno romanzo e film con le mie pagine scritte a mano? Deve esserci un qualche senso, se l’ho sognato. Sospirai melodrammatica e Martina fu pronta ad aggiungere: beh, io questo non te lo so dire, cara. Tu sola lo sai. Ma se ho ben compreso i nostri ragionamenti al bar, mi sa che tutto ruota attorno al concetto di utilità e inutilità. Istantanea, non posteriore. Se ti piace di più: di amore. Di scelta gratuita. Gianluca dice che Bresson, che sarebbe il regista di quel film lì, è un autore oscuro. Misterioso. Un mezzo asceta, o forse no. Cattolico non allineato, scostante, realista e trascendente, credente ed esistenzialista. Guarda che sto’ leggendo: mi sono presa degli appunti altrimenti tutti questi aggettivi pomposi me li dimenticavo e Gianluca ci teneva, invece, che te li passassi. La bloccai, ribadendo le sue stesse parole per rimarcarmele in testa. Martina aggiunse: insomma, dello scrittore non so nulla, ma di questo Bresson mi sono fatta l’idea di uno che non parla mai a vanvera. Ma che nel contempo dice quello che deve dire fregandosene ampliamente del successo, del compiacimento, del fatto che qualcuno lo ascolti. Può essere che mi sbagli, comunque ti conviene fare delle ricerche, di sicuro in internet trovi un bel po’ di roba. Gianluca dice che se vuoi lui ha su chiavetta il lungometraggio: lo ha spostato tempo fa, salvandolo, pare sia affezionato all’opera. Era entusiasta di parlarne, credo volesse convincermi a rivederlo, che ci tenesse mi fosse chiaro il valore assoluto: un capolavoro. La linea si fece disturbata: la ringraziai moltissimo, confermando che avrei tenuto conto dell’invito a riprendere io stessa il film, ma che per il momento, sul serio, non avevo né il tempo materiale né le forze psichiche ed intellettive. Quella faccenda era andata fin troppo avanti: dovevo chiudere il cerchio e passare oltre. Possibilmente, a quel maledetto esame di Italiano che solo si frapponeva fra me e la tesi di laurea. A trent’anni, anche se nulla più era rimasto che un puntiglio, era ora di finire pure l’università. Un bacio a Martina e tornai sui libri. Quando Gio’ era all’asilo, Marco non tornava mai per pranzo, quindi verso mezzogiorno mi feci una tisana. Faceva già freddo, sebbene fosse solo settembre. Seduta davanti al computer, sorseggiando la mia melissa, riguardai il quaderno scritto a mano. In rete un filmato sgranato e tagliato sul finale del film. Aprii una pagina word e cominciai a scrivere tutto quello che mi era passato per la testa in quei giorni. Le impressioni davanti alla bella grafia della figlia della vicina, il senso di inutile fatica e nel contempo, nascosto, un qualche fine intimo e personale. Di bellezza gratuita. Film.tv. e il tentativo di farne un post. Martina e Mario, Martina e Gianluca. La vanità del vano ma anche l’imprevedibilità dell’utile. Il sogno. Il libro di Bernanos, forse il più ostico che avessi mai affrontato. A tal punto da desistere.

Un film visto alle scuole superiori nell’ora di filosofia. Passai in rassegna tutti gli spezzoni su you tube e ricostruii poco a poco “Diario di un curato di campagna”. Non per come l’avrei potuto vedere in maturità. Bensì per come lo avevo seguito a sedici anni, e compreso attraverso il confronto con l’insegnante ed i compagni. La Menzini, trasversale ed analitica, con quella sua voce severa ma coinvolgente, ci chiese di ritornare a Platone, e ancora prima al “conosci te stesso” socratico. Fu accennato il neoplatonismo e soprattutto Sant’Agostino : Dio ama le sue creature e l’eros (la brama possessiva che l’uomo ha di Dio) si fonde così con l’agape (l’amore incondizionato di Dio). Perché Dio è immanente alla ragione umana, cioè è presente dentro di noi come condizione del nostro pensare ed i nostri pensieri nascono da Lui sebbene egli sia inconscio e prema perciò per affiorare alla nostra coscienza. Ma per altro verso, Egli è trascendente, “Altro” da noi: traguardo ultimo dei nostri pensieri che sbadatamente rivolgiamo ad oggetti finiti “Deus interior intimo meo et superior summo meo - Dio è più intimo a me di me stesso e più alto della mia parte più alta” lesse, da Confessioni, III, 6, 11. Poiché Dio è infinito, non possiamo racchiuderlo in una definizione esaustiva. Per questo, nel risalire a Lui, occorre andare oltre i confini dell’umana ragione, fino a vivere l’estati intuitiva, dove Dio e il mondo, prima separati, finalmente si riconciliano. Ma cosa aggiunse, come ribaltò queste certezze Giordano Bruno, secoli dopo? Dio “mens super omnia” trascendente è pure “ mens insita omnibus” immanente quindi forma e materia (principio vivificante). Infinito in mondi infiniti, visto che Egli è in ogni cosa che esiste. Mondi infiniti senza centro dove l'uomo è un essere dotato di razionalità, capace pertanto di pensare e di conoscere Dio nella misura in cui ciò è possibile. E' l'impeto razionale contemplativo che rappresenta il terzo "eroico furore", contrapposto ai primi due (quello delle passioni e quello della vita attiva), in netta contrapposizione con l’esperienza mistica irrazionale di plotiniana memoria. Per questo, tra l’altro, finì al rogo, sebbene i tentativi di salvarlo furono seri e ripetuti. I ricordi riaffioravano, sbiaditi: l’aula con la televisione ed il videoregistratore, io seduta in seconda fila vicino a Francesca. Perché questo film, professoressa? Rispondetevi da voi, ragazzi. Diciamo che, il mio compito è anche, oltre tutto, di incuriosirvi. Spero che fra qualche anno possiate apprezzare lo sforzo. Disse, aprendo veloce un libretto: Vi leggo una citazione del regista Robert Bresson: un film di oggetti è un film sull’anima: cogliere questa attraverso quelli” e ancora “è attraverso gli oggetti, più che attraverso la recitazione degli attori, che un mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei titoli di testa”. Capite bene, da queste parole, come per questo regista francese la forma divenga contenuto. O meglio ancora, come sia la prima parte attiva della seconda. Non coincide forse questa visione con il Cristianesimo, di sicuro con il Cattolicesimo? Aveva tolto gli occhi dal testo per fissarci velocemente da sotto gli occhiali. “La spiritualità spinge spesso al formalismo” citò “La liturgia, la messa, gli inni, il culto dei santi, le preghiere le formule di invocazione sono tutti modi di esprimere il trascendente per mezzo di una forma. La seguente dichiarazione di Bresson sulla propria poetica è applicabile anche ai riti e alle forme religiose in genere: Il soggetto di un film è solo un pretesto. E’ la forma, molto più che il contenuto, a colpire lo spettatore e farlo elevare”. Ci avevo messo un po’ a ricercare la fonte. Ora l’avevo davanti: il pdf di “Il trascendente nel cinema” scaricato in rete. Sorrisi, pensando ai tormenti liceali, e a quanto fossi stata fortunata ad incontrare un’insegnante tanto appassionata e devota alla sua missione. Ne avevo avuto conferme continue nel corso dei miei studi successivi. Ancora una volta, in quella uggiosa giornata di settembre. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia leggendo, anni dopo, la prima enciclica di Benedetto XVI: “In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà « esserci per » l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv 19, 34)” (Deus Caritas est)

Alzai lo sguardo sulla finestra di fronte: aveva cominciato a piovere. Troppa carne al fuoco, mi dissi. Ancora una volta mi ero infilata in qualcosa più grande di me e non ne sapevo come venir fuori. L’idea della pubblicazione si allontanava. Fra un’ora avrei dovuto ritirare Gio’ all’asilo: quelle speculazioni inutili dovevano finire, trovando il proprio posto nella necessità di un universo circoscritto di un sito internet. Snaturandosi nella loro astrattezza, facendosi lettere sul foglio bianco word. Possibilmente, sensate. Ripresi i fogli in mano

 

Li rividi appesi al muro di una povera canonica: utilità, senso, sul serio era quello il mio credo? Fu come una epifania dolce, che mi portò a dire l’unica parola che in quel momento mi venne, e la pronunciai ad alta voce nel silenzio della casa vuota: No.

No, ribadii. Non era più una questione di valore, o di spiegazione, o di comprensione. Ma di motivazione. Mi tornò quell’affermazione di Martina, il suo sguardo improvvisamente lontano: Le cose si fanno perché si sentono di fare. Chiamalo pure, gesto d’amore. Mi immaginai un signore già maturo, carico di studi, di gioie e di dolori, dalle idee nette ma dai gesti ancora incerti, trovare in un autore la fonte della propria poetica, senza che fosse ben chiaro neppure a lui se quella poetica stessa fosse prima o dopo l’ispirazione. Perché entrambe, forse, in quella fase, erano ancora in divenire. Lo vidi, convinto del soggetto, ma il soggetto non è forse solo un pretesto? cercare fondi per un progetto tanto ardito. Sicuro del risultato nella sua testa, ma pieno di dubbi negli svolgimenti. Così totalmente estranei a ciò che era stato fatto fino allora nel cinema, che infatti, lui chiamava cinematografo (e i due sostantivi non sono sinonimi). Reputai da subito quel signore troppo intelligente per non sapere che ciò che si accingeva a creare fosse un’opera accessibile a pochi. Non a coloro i quali mancassero studi, anche minimi: non potevano capire con la testa. Non a coloro i quali non credessero, al di là di tutto in qualcosa: non potevano afferrare con il cuore. Non a coloro i quali troppo avessero sofferto e dalle sofferenze volessero scappare. Non a coloro i quali mai avessero sofferto, e nulla del dolore sapessero. Pensai che quel signore fosse troppo dentro gli affari del momento per non rendersi conto che il suo non sarebbe stato un lavoro finalizzato al profitto. E dunque, perché farlo? Chi avrebbe toccato? Sul serio sarebbe stato in grado di contenere in sé ogni passione, di esprimere ogni pensiero, di farsi cifra stilistica, e se sì quale? Cosa volesse Bresson dimostrare o mostrare, certo la fonte letteraria, ma quanto aderente alla sua poetica in erba? Ed io qui, seduta davanti ad una finestra guardando un cielo di lamiera, i piatti impilati da lavare, claudicante di conoscenze, più che mai di competenze, pomposa nella prosa e stanca di troppi sogni notturni, io che avevo confuso un pezzo di carta con la Bic agli amanuensi medievali chini sulla pergamena con l’oro e i lapislazzuli, come potevo io avere il coraggio di pubblicare la mia narrazione? Altro non era, altro non è: la mia narrazione. Senza fine, senza senso. Sorrisi: giusto così. Imbattersi in un romanzo molto francese, nato e cresciuto in seno ad una spiritualità appassionata ma intransigente, insignito del Grand Prix dall'Academie Francaise ma rimasto sconosciuto ai più, ritrovarvi dentro molto di ciò che costituisce il nostro essere ma forse no, convincersi che quello sarà, nel bene e nel male, il soggetto, che poi è solo un pretesto, per ciò che intendiamo dire. Che poi, non è sicuro che ci interessi sul serio “dire”: fino al giorno prima eravamo pittori e fotografi. Il primo lavoro cinematografico ritirato dopo pochi giorni: una fallimento totale. La forma: quella l'essenza. Pura. Perfetta, asciutta. Curata in ogni dettaglio: poteva essere un fronzolo sulla maiuscola. La sua, invece, personalissima, ed infatti non lo amano fino in fondo i cattolici, qualcuno lo accusa persino di posizioni filoeretiche. Di sicuro non i protestanti. Troppo autero, troppo esistenzialista, troppo poco psicologico. Esiste un senso in tutto questo? Nell'istante in cui lo si decide, e nel decidere lo si compie? No: il senso è intimo e sta nella convinzione. Solitaria. Inutile. Libera. Questa la mia narrazione: la pubblicherò su film.tv. E' mia soltanto: un esercizio. Avrei potuto tenerla nel cassetto, ora lo so, e non avrebbe fatto nessuna differenza perché anche la creazione è un imperativo, ed io me ne voglio spogliare, forse lo voleva pure Bresson e lavorò su un compromesso: l'unico possibile prima del paradosso. Ma questa è tutta un'altra faccenda, ecco che la testa riparte, no! Finirò qui ed ora invece. Aggiungendo che, da allora in poi, da quel 1951, la storia di Robert Bresson fu tracciata per sempre. Diventò Robert Bresson: lo sarebbe diventato comunque, anche se noi non lo avessimo conosciuto. Il compromesso con il paradosso volle invece che anche la nostra storia di spettatori della creazione fosse tracciata per sempre, da allora in poi. Qualcuno, con una buona dose di blasfemia, la potrebbe persino scambiare per un segno della Grazia.

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