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Dialoghi sul cinema. Della toscanità e di altri demoni
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Noi semo quella razza che l'è tra le più strane che bruchi semo nati e bruchi si rimane.

(Berlinguer ti voglio bene, 1977)

 

Il concetto di toscanità è un luogo comune. La Toscana non è una terra coesa, troppo frammentata nei suoi rivoli e nelle sue strisce di campanile, negli schiamazzi da piccolo cortile geloso delle proprie cose. La Toscana è lazzo e scherno contro se stessa: c’è Firenze e poi c’è Siena. C’è Firenze contro Siena e viceversa. C’è l’Arezzo petrarchesca, c’è Lucca e le mura (e Arezzo contro Lucca, ecc…). Prato che ormai sembra città nemmeno italiana, appaltata com’è alla laboriosità curiosa degli orientali, Pisa orgogliosa delle sue meravigliose storture, Massa che è quasi avamposto ligure, sin nella parlata che gli altri toscani non riconoscono, non sentono propria.

La Toscana è gioia (fasulla e forzata) e rivoluzione (tentata, spesso abortita), è disperazione del giorno e della notte che si traveste da giullare, è il tirare avanti che l’è meglio. La Toscana è un lampredotto che non digerirai mai, un ovosodo che fa su e giù (Livorno, altra Toscana che riflette l’imperituro ed unico sentimento di appartenenza), le finte teste di Modigliani (scherzo e presa per il culo, specchio segreto di un apertissimo sentimento di superiorità), le angosce del Mascetti, i frizzi di soli ed altri astri che tramontano presto (gli amici miei che si riconoscono e designano come fratelli, imperturbabile esercito che marcia compatto e sorridente verso la morte, perché la vita, come diceva il regista polacco, è una malattia mortale sessualmente trasmessa, e i toscani lo sanno). La Toscana è l’infinita rifrazione del caleidoscopio dei sentimenti, capaci di convivere, fare a pugni tra loro e leccarsi le ferite come se niente fosse. La maledizione esistenziale di Francesco Nuti, la complessa buffoneria colta e inclita di Roberto Benigni, la leggerezza pneumatica di Leonardo Pieraccioni. Semplificando: spleen, vitalità trotterellante, accettazione ed imposizione del sé mediocre che siamo, tutti. Ai piedi del David di Michelangelo si incontrano, decidono di parlarsi un po’. Si siedono, cominciano a dialogare. Francesco prova a scrivere le sue cose, con difficoltà e tenerezza. E ne ha da dire, ancora tante.

 

 

ROBERTO BENIGNI. Facciamo presto, chè ho da andare a leggere Dante.

LEONARDO PIERACCIONI. Dove vai? In una scuola materna? In un’università della Terza Età? Alla Rai perché lì pagano meglio?

FRANCESCO NUTI. Io non so più leggere Dante.

L.P. Se è per questo, tu non sai più leggere nemmeno Topolino.

R.B. O Francesco, non ti curar di lui, ma guarda e passa.

F.N. Che Leonardo fosse bischero lo sapevamo tutti. E poi un po’ mi stupisco del suo successo, come mi stupii del mio.

L.P. Ecco, Francesco. Torno serio: poiché ti voglio bene, voglio che ci racconti dei tuoi demoni.

R.B. Così passi dal Purgatorio al piano di sotto.

F.N. Partiamo dal fatto che io ho vissuto da bambino a Firenze. E pensiamo che Firenze è un grande paese, non la metropoli che vogliamo sia. I turisti sono soltanto il nostro alibi, la bellezza è come una ridondante e orgogliosa cicatrice su un volto di dubbia tenuta. Quando leggiamo Pratolini lo comprendiamo in pieno: la nebbia ed il fumo delle botteghe, la malinconia dei giorni e la nostalgia delle cose che non accadranno; il sesso come volano sociale ma fondamentalmente triste manifestazione di sé; i quartieri e le conoscenze da circolo chiuso; gli inganni, la voglia di cambiare, l’àncora del censo, i rapporti di forza e di potere, la bellezza destinata a sfiorire, i riti, le virtù perdute o mai possedute, la maledizione del dover essere; il dialetto che vuole farsi lingua e invece si guarda l’ombelico. Io penso che Pratolini sia stato veggente più di Dante.

R.B. Ma Dante parlava al mondo, non a Firenze o all’Italia.

F.N. Dante inventò una lingua. Noi l’abbiamo imbastardita e stuprata.

L.P. Concludi, Nuti. Qua ho l’agenda piena. E a te ti aspetta la badante.

F.N. Mi chiedevi del successo. È una questione di anime: ci sono quelle impermeabili, quelle che vogliono, che non si stupiscono. Hanno davanti il nastrino del traguardo e non contemplano possibilità di fotofinish. E poi ci sono quelli come me, e le loro anime. Che si sgomentano, come la prima volta che hanno fatto all’amore, come quando si sono innamorati e si chiedevano perché io, perché lei? Come quando le donne gli cascavano nel letto senza ragione e si guardavano allo specchio e reiteravano le domande prima di trombare. Come quando il box office parlava a più zeri e si ricordavano di quando facevano gli operai nel tessile di Prato. Maledetto è il passato, ingannevole è il futuro. Come il conte Mascetti: prima ricco, ora grullo. Come Firenze: prima i Medici, ora modesti infermieri che si sentono Barnard. Non si sfugge, io non ce l’ho fatta.

L.P. M’importa una sega a me del passato.

R.B. Ma perché, Leonardo, tu come me sei immerso nel quotidiano e negli impegni. La nostra fortuna è stata quella di abbandonare le menate del Bozzone e dei suoi compari, di smettere di sognare Berlinguer e la dittatura del proletariato, di darci una ripulita e una lucidata anche lessicale che ci consentisse di parlare ai borghesi e al popolo tutto. In fondo, ma non diciamolo troppo in giro, Dante è una moda comoda anche per le bocche dei signorotti. Quando lo declamo in televisione, nei teatri, nelle scuole, finisco con il rendere pieno servizio alla altrui ignoranza, a farmi paladino della bellezza cui, se ragionassimo come 30 anni fa, la gran parte del pubblico non avrebbe diritto. In questo sta il ruolo sociale che la Rai ancora possiede.

L.P. I paladini della bellezza di regola lavorano gratis.

R.B. Falla finita. Rettifico quanto appena detto: tu sei nato borghese e borghese morirai. Nelle aie e nei cortili di Castiglion Fiorentino io mi innamoravo delle galline. Tu giravi con le sosia di Micol Finzi Contini.

F.N. E comunque: galeotto fu il canone e chi lo impose.

L.P. Francesco, te tu mi metti ancora allegria.

F.N. E tu, Leonardo? Perché fai film così di merda?

L.P. Questa è invece una questione di meccanismo. Trovare una chiave, individuare pochi ingredienti, mescolare con calma e sapienza. Cucina, alta o bassa lo dice il pubblico, e quel famoso box office. Una faccia pulita, l’ironia che non disturba, una manciata di facile satira politica, belle ragazze, il trionfo del sentimento, il tronfio del comico. Le mie sceneggiature funzionano: gli spettatori si attendono quello che vedranno e vedono quello che si immaginavano. Non è merda, Francesco: la merda è considerarsi Kurosawa quando sei Ed Wood.

R.B. Quando ho fatto La vita è bella sapevo di rischiare. C’era stato Schindler’s List, il cappottino rosso, le lacrime a fiumi. Quelle tematiche dovevano essere svecchiate e ricondotte ad un discorso capace di fare occhiolino a pubblico e critica. Ho provato a percorrere i binari del comico e del tragico senza integrarli bensì separandoli nettamente. Quel film è due film, è anima duplice, è riso e gioia, pianto e sofferenza, storia e provincia, Arezzo e lager. Per questo, consentitemi, è un congegno che sfiora la perfezione. E, al contempo, si è rivelata la mia maledizione. Dopo l’Oscar non potevo continuare a fare il burattino, il discolaccio che va dalla Carrà e parla del suo sventrapapere. Ero diventato un oggetto di culto e un aedo di cultura. Non restava che imparare Dante a memoria e stamparsi in volto un sorriso di intelligenza e profondità. Ma i cinema polverosi dove andavamo a farci le seghe da ragazzi, disperati, senza prospettive, con la fame che ci mordeva le caviglie, mi mancano, e tanto.

L.P. Lo facciamo un film tutti e tre?

F.N. Chi di voi mi porta sul set in sedia a rotelle? Chi mi doppia? Pannofino? Troppo romano, noi siamo toscani, Maremma maiala.

R.B. Se la Rai mi libera.

F.N. Non farò più cinema. Già ho superato il Mascetti. Mi aspetta la fine ed il buio.

R.B. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova.

L.P. M’importa una sega di Dante. Ma quant’è bella la Toscana, però?

 

 


 

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