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I corpi politici e cinematografici di Enrico Berlinguer e Silvio Berlusconi
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Brutto impantanarsi in discussioni politiche. Schierarsi, prendere (una) posizione, cercare i punti di contatto tra eventuali opposti estremismi. Di questi tempi, poi. Tempi in cui la politica è melassa ed elastico frutto amaro caramellato, in cui la discussione da bar o da talk ha preso il posto delle serene prese per i fondelli e delle rivendicazioni di un’orgogliosa appartenenza. Non ci sono i partiti di una volta (e sembra un discorso da treno, ovvero una delle felici inversioni logico-temporali di Totò), tutto è movimento, liquido e fluido, TG che spacciano per verità esiziale l’ultima delle veline, opinionisti ed opinion leader molto presenti salvo che a se stessi ed alla coerenza, soldatini schierati da generali annoiati. Il corpo politico oggi è molto televisivo e niente cinematografico: se pure Sorrentino (pare, ma la notizia non ha avuto debiti riscontri) voglia portare sullo schermo la figura di Silvio Berlusconi (proprio lui, il regista che scarnificò la figura ieratico/ombrosa di Andreotti, sino a trasformarlo in un epigono del male quotidiano, digeribile, anche affascinante), l’hombre di partito ha una verticalità che non si riesce a cogliere, non possiede l’atout in grado di trasformarlo in figura mitica che il cinema può, sa, diremmo deve, amplificare. Renzi e Salvini, per dire, ma lo stesso Grillo, sembrano replicanti di una battaglia mediatica molto social, poco tragica (come può essere tragico un kolossal che riprenda in mano i topoi della classicità greca). Le pistole fumanti in mano a questi governanti sono di plastica o cartapesta, le parole pesano, ma il giusto, sino al prossimo scandalo, alla prossima scusa, al prossimo ci siamo spiegati male.

 

Ma c’è stato un tempo (inteso come entità dilatabile ad libitum, al di là dello stretto rigore cronologico) in cui il corpo, le parole, la prossemica dell’uomo politico facevano cinema e dal cinema venivano inglobati. Un tempo in cui le contrapposizioni evidenti garantivano lo schieramento a plotoni agguerriti, in cui la riconoscibilità era il segno non di una resa ma di una scelta di campo, romantica, assoluta, a suo modo bellissima. Io sono di qua, tu di là. Parliamo, confrontiamoci, prendiamoci a pistolettate, lanciamoci sassi di acuminate parole, lottiamo nel segreto dell’urna, come democrazia (e non pastiche democratico) vuole. Due nomi, due persone, due politici, che pure non si incontrarono mai, se non per vie traverse e misteriose, e su territori differenti. Due soggetti che si fecero alfieri di un modo di vivere e di concepire l’esistenza diametralmente opposto e che, nell’aderire perfettamente a questa propria concezione (anzi nel cercare, riuscendoci alla perfezione, di imporla alle masse), si librarono nei cieli dell’eroico. Ciascuno a suo modo, ciascuno con gli strumenti a disposizione, con gli apparati disponibili, con l’afflato dei propri e l’odio degli altri. Il cinema se ne accorse, prese nota, elaborò. E, naturalmente, sceneggiò quelle vite dotate di una propria coerenza (N.B. qui non ha alcuna importanza dire come la si pensasse, qui stiamo parlando di figure che possedevano in sé i germi della possibile struttura filmica), di una intima indissolubilità. O almeno, per ovviare al rischio della biografia patinata, ne fece numi titolari di opere diversissime ma imprescindibili.

 

Il 1976 è l’anno della grande illusione rossa. Con il PCI al 34% dopo le elezioni politiche, sembrò a molti che fossero state poste le basi per una felice e finalmente possibile alternanza alla guida del Paese; parve, insomma, che quella forza rappresentativa del partito di Enrico Berlinguer potesse diventare di governo e non più solo e soltanto di lotta. Non andò esattamente così, ma in quegli anni il fascino del segretario (un fascino di ombrosità buona, di inscalfibile rigore morale, di basica ma effettivamente rivoluzionaria comunicatività) iniziò a travalicare i ghetti del popolo di sinistra per assumere una sorta di valenza nazionale cui il cinema non poteva restare indifferente. Ai tempi c’era un comico giovane ed acerbo, il cui personaggio di Cioni Mario iniziava a parlare con forza, e a sgomentare. Il mondo visto dal basso, dagli occhi del folletto di estrazione contadina che non conosce altra interazione con le cose che non sia quella dell’oscenità, dell’invettiva. In Televacca (1976), con la complicità dell’autore Giuseppe Bertolucci, il toscano comunista Cioni Mario viene sdoganato in televisione (nella televisione profondamente democristiana dell’epoca!). E’ un’epifania: il linguaggio volgare ed escrementizio, i gesti e le canzoni scurrili, il comunismo rappresentato come summa degli istinti basici dell’uomo, cui comunque viene garantita la patente di ferina e spontanea giocosità, sono una ventata di pur viziata aria fresca. L’anno successivo, forse spinti da quell’exploit elettorale, o comunque nell’attesa e speranza di esso, Bertolucci e Benigni ci riprovano. Nasce Berlinguer ti voglio bene. Il segretario non compare mai, forse in qualche sporadica foto che ne accentua e sottolinea il carattere iconico; ma è costantemente presente (oltre che chiamato per nome, Enrico, come un fratello maggiore che tutto sa di te e che ti è vicino per proteggerti e farti crescere) ed assolve perfettamente al ruolo di nume tutelare di un gruppo di sottoproletari dell’hinterland fiorentino, persi nelle campagne e nelle masturbazioni di gruppo (con sonetto incorporato), stretti tra piste edipiche e deviato senso degli affari (si pensi al personaggio di Bozzone ed alla “mamma venduta”). E’ solo Berlinguer che indica la luce in fondo al tunnel: Berlinguer ed il suo sogno di una cosa mai come allora possibile; Berlinguer e le masse adoranti; Berlinguer ed il linguaggio che bypassava (termine orrendo e molto postcomunista) le pastoie della retorica per parlare a tutti i Cioni del mondo/Italia.

 

 

Poi gli anni passano, Berlinguer muore (ci torneremo, non prima di aver qui fatto cenno al documentario Quando c’era Berlinguer di Walter Veltroni, prova un po’ scolastica che tuttavia contiene almeno un momento di potentissimo cinema-verità) e con esso i partiti (quasi un suicidio di massa). Cambia l’Italia, si trasforma l’Europa tra guerre ed entusiasmi. Il 1994 è anno che segna un’ennesima svolta, anno capostipite di un ventennio i cui effetti socioculturali saranno durissimi a smorzarsi. La politica, dopo le schienate della magistratura, intravede piccoli interstizi di movimento ma comprende che la perdita della passata purezza comporterà la deliberata rinuncia ad ogni forma di possibile futura purezza. Dalla commistione (furba ma lungimirante) tra politica ed affari, tra interesse pubblico e privato, sorge la figura di integerrima ambiguità del tycoon ricco e avveduto, del magnate anche egli capace (però da una posizione di superiorità anche fisica, da una sorta di Piazza Venezia postducesca) di elargire panem et circercenses al popolo. In una parola: Silvio Berlusconi.

 

 

Ci sarebbe voluto (ed in effetti arrivò) un regista dalla fiorente capacità profetica come Nanni Moretti per tentare una, volutamente parziale ma assai fascinosa, reductio ad unum di quel tentacolare e multiforme animale politico meneghino. Il caimano è favola politica e morale che, partendo da una satira anche facile, penetra nei gangli motivazionali di una scelta politica che fu anche passaporto personale per nuovi orizzonti. E che seppe (in ciò parente stretta e parallela della retorica ieratica di Berlinguer) parlare al popolo, un popolo di presunti vincenti, di imprenditori e manager, di figliocci rimbambiti degli anni ’90 ma, comunque e indiscutibilmente, massa, folla. E non delle meno capaci di spostare ed imporre voti, opinioni, soprattutto comportamenti e modelli culturali. La profezia di Moretti si arresta di fronte ad un enorme falò, ad un’esplosione che fa strame di vanità e sogni di grandezza, che sembra ricondurre il Paese Italia (anzi l’impresa Italia) ad un cumulo di macerie da cui è necessario, ancorché complicato, ripartire. Molte macerie stiamo ancora raccogliendole, pur senza preventive esplosioni. Berlusconi, secondo una legge di natura che egli stesso fatica ad accettare, attende indomito il declino. Conscio di aver imposto se stesso all’Italia, di averla berlusconizzata, tra complici e parvenu, tra masse incapaci di sentirsi orfane di un leader, purchessia. Né si può essere davvero sicuri che nella palude ci sia davvero finito il caimano di Moretti.

 

 

La morte di Berlinguer. Curioso come un leader così schivo e riservato si sia fatto effettivamente corpo ed oggetto filmico nel momento estremo. Al di là delle ricordate trasfigurazioni cinematografiche, il filmato amatoriale del comizio a Padova (giugno 1984) è momento di cinema potentissimo, non filtrato da alcuna sceneggiatura o scenografia che non siano quelle imposte e nascenti dal momento imprevisto. Un uomo che parla, perché sta svolgendo il proprio lavoro, quello in cui crede, quello per cui è davanti ad un microfono. Un improvviso malore che non ne smorza gli entusiasmi, la capacità dialettica, la prospettiva di immaginare una diversità per la gente cui si rivolge. Sino al limite. Cinema verità ogni oltre immaginazione, il lento sfaldarsi di un corpo (e di un sogno, di un’idea) nell’ottica sgranata di una modesta cinepresa. Immagini che, a rivederle, sono anche pornografia, ove assorbite con morbosità. Ma sanno essere, soprattutto, documento di una passione, reportage di coerenza e lucidità via via più sfibrate, registratore di suoni e parole, e di corpo che non accetta la fine per poi piegarsi ad essa docile. Quelle parole finali che potevano essere eredità e rimasero cinema. Come la successiva scena dei funerali (che infatti molto cinema ha saccheggiato): gli occhi, le mani, i fazzoletti ed i pugni di persone che avevano perso qualcosa. Con il senno di poi, diremmo un’ultima speranza.

 

 

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