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Sicilia Queer FilmFest 6 - Giorno 2
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"Il Sicilia Queer è e vuole essere un luogo libero di sperimentazione dei saperi, di ibridazione delle culture, di trasformazione del pensiero, di lavoro sulle complessità. Un cantiere realmente aperto, con tutti i suoi rischi." (Editoriale, dal Catalogo del Sicilia Queer FilmFest 6)

 

 

La giornata di oggi, 30 maggio 2016, è all'insegna delle corse e della fretta. Troppi film e pochissimo tempo per vederli. Si arriva ai Cantieri Culturali con un discreto anticipo per recuperare il catalogo, ricchissima riserva di interviste, articoli e schede su tutti i film presenti al festival, e andarsi a posizionare in Sala Wenders al Goethe Institut per la prima visione della giornata, che è anche il primo lungometraggio in concorso: Nasty Baby di Sebastian Silva. Impegni infatti mi impediranno di recuperarlo alle 22,30 del venerdì 3 giugno, e sono dunque costretto a rinunciare non solo a The Garage di Roscoe Arbuckle, prima comica della rassegna in omaggio a Buster Keaton (nella sezione Carte Postale à Serge Daney), ma anche a La nuit s'achève di Ciryl Leuthy, di cui avrebbero più tardi parlato in maniera mediamente entusiastica gli altri compagni di visione.

 

locandina

Nasty Baby (2015): locandina

 

In pochissimi siamo per Nasty Baby. Inizia la visione con buone aspettative (alla co-produzione sta Pablo Larraìn), ma col senno di poi avrei forse preferito recuperare il film della Sala De Seta. Il film di Sebastian Silva è l'esilissimo tentativo, originale sulla carta e velleitario di fatto, di procurare disorientamento nello spettatore alimentando simpatie e affezioni per i personaggi protagonisti, e per i toni da commedia invero sundanciana e quindi un po' vanitosa, e poi capovolgendo tutto in un risvolto finale per il quale non riesce a non scappare qualche risata sotto i baffi. Nel film del regista cileno manca lo stile, e, manco a dirlo, la regia. Cose basilari, insomma, e constatando queste importanti assenze, non c'è da domandarsi il perché i personaggi siano così piatti, o anche il perché non si sia sfruttato meglio il discorso meta-artistico che offriva l'attore protagonista (lo stesso Silva, che interpreta un videoartista omosessuale che sta realizzando un corto intitolato Nasty Baby e nel frattempo cerca di avere un figlio col compagno Mo inseminando l'amica Polly). Molti spunti, di fatto, vengono a mancare nell'assente sviluppo del film: ancor più che spunti narrativi, spunti visivi. Non si fa fatica a dire che il meglio del film sta nei titoli di testa (sparati improvvisamente agli occhi dello spettatore dopo l'anonima scena iniziale, con quei ralenti stilosi che lasciavano intendere ben più coraggio e savoir faire) e nei titoli di coda (quando non si vede l'ora di lasciare la sala, ma il montaggio riserva, in sincronia con una mitragliatrice di musica elettronica, un alternarsi di breve sequenze ripetute e stranianti su un campo di pattinaggio). In mezzo a queste due piccole luci, il buio di un film ripetitivo, irritante, privo di sguardo e ridicolo quando tenta la strada del film indipendente e alternativo

 

Voto: *1/2

 

scena

Funny Boys (2016): scena

 

Si corre al De Seta e si ha giusto il tempo di una Coca biologica e di alcuni saluti prima di affrontare la prima manche della selezione Queer Short guidata da Tatiana Lo Iacono, che racconta subito prima della proiezione che si tratta di 17 cortometraggi scelti su ben 300. Si parte con l'anteprima assoluta di Funny Boys di Marina Bertino, oltretutto presente in sala: alcuni frammenti del romanzo di Shyam Selvadurai, Funny Boy, vengono pronunciati fuoricampo sulle immagini amatoriali di un viaggio della regista in Sri Lanka. Non si sa quanto involontariamente la Bertino cita Lav Diaz (il Venice 70: Future Reloaded) e l'ultimo Loznitsa nell'invadenza degli sguardi in camera. Particolarissimo lo studio sul sonoro, e sulla fantasmizzazione di due personaggi in particolare (uno dei quali è, si capisce alla fine, il marito della regista). In effetti però ben poco rimane di questa piccolissima esperienza esotica, le cui immagini sono sorprendentemente svilite dalle letture della voice over e banalizzate da un montaggio poco pregnante.

 

Voto: **1/2

 

scena

Ama (2015): scena

 

Ancor meno interessante, almeno sul fronte cinematografico, Ama del collettivo L'école des images, che è il brevissimo sogno di libertà di una turista in visita in Giappone. Immersa in colorati fondali marini, verrà presto ricatturata dalla realtà. Il maggiore interessente è sul fronte tecnico, proprio dell'animazione bidimensionale che caratterizza questo breve film, ma forse anche la durata esigua non permette che esso si insinui romanticamente nella memoria dello spettatore.

 

Voto: **

 

scena

Pink Boy (2015): scena

 

Il titolo di peggior corto di questa prima parte della selezione va a Pink Boy di Eric Rockey, un corto che pare realizzato da un Minervini sentimentale su un giovane bambino che ama vestirsi da bambina e assumere comportamenti evidentemente femminili. Un sorta di film su un fenomeno umano involontariamente esibizionistico e dai risvolti moralistici dolciamari che sembrano tirati fuori dalla peggiore televisione.

 

Voto: *1/2

 

scena

O Pássaro da Noite (2015): scena

 

Viene invece, subito dopo il peggiore, il migliore di questi primi otto cortometraggi visti oggi. Si tratta di O Passaro da Noite di Marie Losier (nei titoli di coda si vedono anche i nomi di Gabriel Abrantes e Pedro Costa). Si tratta praticamente di un ibrido fra Puce MomentDeath Inauguration of the Pleasure Dome di Kenneth Anger riveduti e corretti. Il soggetto principale (che poi, leggendo il catalogo, si scopre essere un performer portoghese di nome Fernando) si traveste e si trasforma di fronte agli occhi dello spettatore in maniera improvvisa e sfacciatissima, suscitando la curiosità della gente che lo circonda e sembra anche giudicarlo. Egli prima si ritrova a interpretare una sirena su una spiaggia di giorno, e poi a percorrere inquietanti stanze notturne attaccato da volatili imbalsamati e strane creature del bosco. Il suo viaggio in questa densa e frastornata metamorfosi (in cui incorre la stessa, bruciante, materia filmica) è angosciante e liberatorio al contempo, sempre teso fra la possibilità della spontaneità nell'espressione di sé, e l'imbalsamazione esibizionistica. L'imbarazzato ballo finale, fra uomini con doppi volti (umani e animali) che rievocano la dicotomia fra libertà e prigionia di sé, non riesce a dare una risposta, e lascia allo spettatore la sola sicurezza di aver assistito a un raffinato elogio della scuola neo-avanguardista americana degli anni '50 e '60, di diretta ascendenza warholiana.

 

Voto: ****

 

scena

Mother Knows Best (2016): scena

 

Due soli pianisequenza per il cortometraggio di Mikael Bundsen: nel primo la mamma del titolo è fuori campo, nel secondo è oscurata dallo sfocato perimetrale di un primo piano. Seppur nella sua fissità un tantino allucinata, Mamma Vet Bast è un divertente capovolgimento dei luoghi comuni, che parte dal problema di rivelare la propria identità sessuale, alla colpa di non averlo fatto prima con le persone cui si è più vicini. Si aggiunga inoltre l'indizio narrativo, evidente a partire dalle dinamiche fra i protagonisti, che l'omosessualità del protagonista venga sfruttata sempre dalla madre del titolo per riarmare la lotta contro un marito - presumibilmente ex - cui ancora si prova rancore. Graffiante e brillante, e di perizia tecnica non indifferente: poteva prestarsi a una causa narrativa ben più sperimentale.

 

Voto: ***

 

scena

Ryaba the Hen (2015): scena

 

Sulla scorta dell'insegnamento di Jan Svankmajer, Vasily Kiselev realizza il cortometraggio più divertente, Kurochka Ryaba. Un fulmine a ciel sereno, una cartuccia esplosiva di satira nonsense coloratissima ed esilarante, che pure in soli tre minuti annienta e, dopotutto, affascina.

 

Voto: ***1/2

 

scena

When You Hear the Bells (2015): scena

 

Au Bruit des Clochettes di Chabname Zariab vanta il contesto esotico e classicamente difficile dell'Afghanistan del presente per confermare l'originalità del suo assunto narrativo: un giovane ragazzo molto bello, pagato per ballare travestito di fronte ad altri uomini, si accorge che il suo padrone lo sta sostituendo con un bambino piccolo e inquieto. E' bello vedere come viene inquadrato il personaggio protagonista, sempre proteso a salvaguardare la propria bellezza e il proprio ruolo, ma allo stesso tempo desideroso (o no?) di salvare il piccolo sostituto. Oltre al dubbio, però, che il sentimento del protagonista sia invidia o reale affetto, del film non rimane davvero granché. Il comparto estetico è come minimo patinato, e l'abuso di enfatici primi piani e incoerenti campi lunghi rende la regia altalenante e poco sicura. Il finale non si sa se apprezzarlo o se vederlo come la semplice esecuzione di una trovata a posteriori che nei fatti non ipnotizza poi così tanto, ma che eventualmente semplifica i dubbi precedentemente avuti sul protagonista. In fin dei conti è un po' facile cadere in tale ovvia disperazione maledettistica.

 

Voto: **1/2

 

scena

OUT (2014): scena

 

Come ultimo corto, OUT di Gsus Lopez (che si ricorderà quanto meno per il divertente nome del regista), è una commediola citazionista di ostentato cinismo, in cui l'apparato dolaniano-almodovariano va per forza rievocato da delle locandine sul muro del giovane protagonista. Piccole curiosità le può riservare il comparto visivo, ma viene il sospetto che non sia altro che innocua fuffa.

 

Voto: **1/2

 

locandina

Alky Alky (2015): locandina

 

Il secondo lungometraggio in concorso visto oggi, 30 maggio, è Alki Alki di Axel Ranisch (al suo opus n. 3). E' la storia del baratro etilico in cui scivola un obeso alcolizzato, padre di tre figli, e innamorato di DeBottle, che convive con lui e la sua famiglia. Il film è una commedia amorfa e ricca di affascinanti ninnoli superflui ma superbamente rifiniti, specie nell'ambito della fotografia e del montaggio ritmico. Le ubriacature dei due protagonisti e i personaggi della clinica di riabilitazione dove l'alcolizzato Tobias viene rinchiuso con DeBottle sono le vette di una follia visiva che, per quanto sotterraneamente inerte e felicemente inutile, sa offrire saggi spunti di riflessione sulla imperturbabile spinta del protagonista verso l'autodistruzione (una sequenza pare citare La grande bouffe ferreriana), sulla psiche distorta dello stesso (il plot twist fondamentale arriva non nel finale, ma col prosieguo della storia stessa, in modo quieto e buffissimo), e sulla possibilità di fare commedie su soggetti usuratissimi senza scadere in un malcelato buonismo ma vantando una onesta scorrettezza politica (il che volendo si addice allo scanzonato cinema dei fratelli Farrelly, citati apertamente nel menestrello-copia dell'analogo di Tutti pazzi per Mary). 

 

Voto: **1/2

 

locandina

La vanité (2015): locandina

 

Il miglior lungometraggio della giornata è l'ultimissimo film di Lionel Baier, presentato l'anno scorso a Cannes e a Locarno. E' un piccolo dramma allegro da camera, che oltre a vantare l'interpretazione fantastica dei suoi tre protagonisti (tra cui la sempre in forma Carmen Maura), è anche un saggio di rappresentazione teatrale (teatro rievocato dalle tende che sembrano sipari sul piccolo palcoscenico), in cui la natura finzionale è sempre rievocata da un'estetica contenuta e quasi minimale (la luna splendidamente finta, i divertenti flashback dei protagonisti). D'altronde è lo stesso Baier nella presentazione al film a dire che la finzione è una scorciatoia verso uno sguardo più preciso sulla realtà: nel suo film si abbandonano infatti le tendenze documentaristiche che pure innervano altre sue opere (l'opera prima, Garçon Stupide, sottolineava la finzionalità del tutto con una mdp ingombrante e sempre presente), mantenendo però sempre un grandissimo interesse sul fronte della ricostruzione e del racconto. Un discorso raffinato di estetica, che come in Garçon Stupide si scioglie in un finale un po' romantico in cui i rapporti fra i personaggi diventano fin troppi amichevoli e scontati. Peccato che non si sia giocata meglio ancora la carta bunueliana del protagonista che non riesce, nonostante gli svariati tentativi, a suicidarsi: un'ulteriore riflessione teorica sull'ironia avrebbe giovato e arricchito, stratificato, un'opera di tali potenzialità (in cui le tecniche filmiche delle zoomate e dei carrelli ripetuti ritrovano nuova linfa e vivace rielaborazione).

 

Voto: ***1/2

 

Per nuovi aggiornamenti, domani: sarà la volta di Le Bois dont les reves sont faits di Claire Simondi Mai di Giulio Poidomani, di Come una stellaRoma Termini di Bartolomeo Pampaloni, de Les Grands Ondes (a l'ouest) di Lionel Baier e di Spectrum SQ3105ORG di Canecapovolto.

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