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 Avevo sperato di farci qualcosa di diverso: problemi tecnici lo impedirono. Giusto per non buttarlo lo pubblicai come recensione. 28 maggio 2013: //www.filmtv.it/film/16427/tess/recensioni/699007/#rfr:user-51471

Sarò a Newcastle ancora, a fine mese. Manco dall'ottobre del 2014: un' altra era. Riguardandolo ora, faccio veramente fatica ad inquadrare questo scritto nel periodo: quasi tre anni fa. "Più ragiono, più rileggo, più mi convinco di non avere saputo (o voluto) modellare un pensiero. Tantomento una analisi o una meditazione. Doveva essere un post, non so che succede al mio computer". Mi viene in mente di risistemarlo graficamente, conferendo finalmente e definitivamente la forma che avevo a suo tempo pensato. Solo che qui, ora, mi assale all' improvviso la strana sensazione che queste parole stiano con fatica trovando un nuovo senso di sé, lontano nel tempo, lontano nello spazio che prima non avevano saputo bene ritagliarsi. Al di là di chi le scrisse, e forse, per chi. Sempre Newcastle: 11 novembre 2013, una stanza anonima del Copthorne Hotel. Ho una memoria di ferro per le cose che contano: mi siedo sul letto, mi tolgo le scarpe, digito. Poi mi alzo, cammino nervosamente, mi affaccio alla finestra che guarda sul retro un grigio edificio moderno. Cerco di stemperare l'imbarazzo e l'emozione di ascoltare, per la prima volta, una voce sconosciuta e forse, tanto attesa. Un' altra era, appunto: è che mi assale la nostalgia! e la difficoltà insormontabile, per me, di dire addio. Anche se implorato. Anche se necessario.

La città è deserta e scura.

Le ombre dei palazzi georgiani si allungano alla luce pallida dei lampioni, perdendosi poi nel grigio irregolare della pavimentazione urbana, a volte pietra, altre volte asfalto. I miei passi risuonano nel silenzio, amplificati dalla eco leggera del vuoto. Arrivo al Greys' Monument, alcuni ragazzi scivolano sulle scalinate con gli skateboard. Una coppia passeggia guardando svogliata le vetrine illuminate, pochi altri si affrettano al metrò. Un senso di mestizia e inquietudine mi assale. I muri severi degli edifici paiono richiamarmi ad una malinconia sommessa. Mi stringo nel cappotto. Il vento soffia deciso. Viene dal mare, l'odore acre della salsedine, l'umidità che si fa goccia, piccole gocce di pioggia taglienti come lame. Ma il freddo, quello viene dal nord, e dalle pianure centrali, ancora coperte di ghiaccio, in questo febbraio insolitamente rigido. "The snows it melts the soonest when the wind begisn to sing". Veramente canta il vento, la sua melodia triste di soffi improvvisi e violenti, attraverso le fessure delle pietre e lungo le vie severe, ripetitivi eppure irregolari. La mia voce è un sussurro, nel silenzio tutt'attorno: "And the corn it ripens fastest when the frosts are setting in;". Un mormorio imita la musica di quell'arrangiamento. Il suono a tratti stonato del flauto, le acciaccature continue, le puntature leggere sulle note, quell' insistere sull'ottava media ma nella chiusura sempre più in basso, piano, il sibilo del vento che va a morire ... sempre più piano, a morire ...

O, the snow it melts the soonest when the winds begin to sing;And the corn it ripens fastest when the frosts are setting in;And when a woman tells me that my face she'll soon forget,Before we part, I wad a crown, she's fain to follow't yet.The snow it melts the soonest when the wind begins to sing;And the swallow skims without a thought as long as it is spring;But when spring goes, and winter blows, my lass, an ye'll be fain,For all your pride, to follow me, were't cross the stormy main.O, the snow it melts the soonest when the wind begins to sing;The bee that flew when summer shined, in winter cannot sting;I've seen a woman's anger melt between the night and morn,And it's surely not a harder thing to tame a woman's scorn.O, never say me farewell here -no farewell I'll receive,For you shall set me to the stile, and kiss and take your leave;But I'll stay here till the woodcock comes, and the martlet takes his wing,Since the snow aye melts the soonest, lass, when the wind begins to sing.

(Oh la neve si scioglie prima quando i venti iniziano a cantare;E il grano matura più velocemente quando il gelo si è depositato;E quando una donna mi dice che dimenticherà presto il mio volto,Prima di dividerci io scommetterò un chicco di grano che lei sarà già pronta a seguirmiLa neve si scioglie prima quando i venti iniziano a cantare;E la rondine vola senza pensieri finché è primavera;Ma quando la primavera se ne va e soffia l´inverno, oh piccola mia, tu sarai felice,Con tutto il suo orgoglio, di seguirmi, attraverso il mare in burrascaOh la neve si scioglie prima quando i venti iniziano a cantare;L’ape che volava quando l’estate splendeva, in inverno non può pungere;Ho visto la rabbia di una donna sciogliersi tra la notte e il mattinoCosì non è sicuramente una cosa più difficile domare il disprezzo di una donna.Oh, non dirmi mai addio qui - no, non riceverò il tuo addio,Dovresti farmi scendere, e baciarmi e andartene;Ma io starò qui fino all'arrivo della beccaccia ed il balestruccio prenderà il voloPerché le nevi si sciolgono prima quando i venti iniziano a cantare)

Mi affretto verso l'hotel, passo davanti alla chiesa di St John, il campanile basso ma elegante, la facciata impassibile e corrucciata. "The wind begins to sing" tra le guglie, le vetrate strette che mi immagino veder vibrare. 

Sono lontane le luci del Millenium Bridge, lontane le colline verdeggianti un po' più a sud, a cavallo del vallo. Lontano il sole che brillava a Cashel quel giorno che per la prima volta ascoltai questa canzone. Ma Newcastle, questa sera, mi sembra tutta racchiusa in questa malinconica melofia. Che narra dell'inverno che arriva. Del freddo e del nord.

E narra di un addio, al risveglio. Nelle nebbie.

Riaffiora un' immagine. Mi sorprende di botto: netta eppure sfuggente. Rivedo le pietre di Stonehenge, mi figuro quel distacco senza parole, quell'ultimo saluto all'amore ed alla vita. Mentre il sole sorge. Sempre, e comunque. 

Si può essere nel giusto; eppure sbagliare. Restare a guardare la superficie appena increspata dell'acqua; non riuscire a scorgere il fondo, agitato da vortici e correnti, a tratti limpido, più spesso torbido. Descrivere il vento leggero che accarezza con dolcezza le colline ma preferire non indugiare su quello che abbatte e scuote, e sibila violento per poi nascondersi nelle fessure. Trovare sempre la parola più appropriata, ma non sapere mai toccare l'anima. E l'essenza.

Così per "Tess", quell'addio lento. Poco, veramente poco, "Tess dei D'Urbervilles".  

Se "un romanzo è un'impressione, non un argomento" (Thomas Hardy), allora un film dovrebbe essere una sensazione. E mi sarei aspettata, in "Tess" di ritrovarne molte, possano esse dirsi impressioni oppure sensazioni.  Quella "politica" innanzi tutto. Perchè il romanzo è un affresco realistico ed impietoso della condizione dei contadini inglesi di fine Ottocento: affamati ed ignoranti, stanchi e goffamente religiosi, ingenui ed approfittatori. Ma anche della piccola borghesia rurale: cieca e sorda, chiusa nel proprio mondo efffimero, egoista ed annoiata, insensibile ed improduttiva. Degli uomini di fede, senza speranza, senza carità. Della giustizia umana che giusta non è. Poi avrei voluto trovarci il senso "etico" perchè Hardy rabbiosamente si chiede, per tutta la lunghezza dell'opera, dove sia quel Dio di gloria e bontà. Perchè egli volga lo sguardo, indifferente, dalle iniquità del mondo: " ... dov'era l'angelo custode di Tess? Dov'era la Provvidenza della sua ingenua fede religiosa?". Veramente, la giovane protagonista del romanzo, pare sia figlia di un Dio minore, se non orfana di un Dio: la sua disperazione non può essere colmata neppure dalla preghiera, dalla solitudine di una chiesa vuota. Il suo aguzzino, redento e redentore, la tormenta.  Lei, ricettacolo del peccato; lei, impura e debole. Quindi mi sarei aspettata una sensazione "psicologica", perchè il testo affonda deciso il coltello nella vanità umana, nel disprezzo, nella mancanza di compassione. Indaga il confine sottilissimo fra seduzione e concussione, tra volontà e negazione della stessa. Tra colpa e redenzione. E ancora una sensazione "sociale", una riflessione profonda sul ruolo della donna, sul suo valore fittizio e falsamente "naturale" di figlia, moglie e madre. Mai di essere umano. Sulla ingenuità come arma a doppio taglio. Sulla bellezza istigatrice, che danna chi la possiede. Sul corpo come oggetto del piacere altrui, come oggetto appunto. Mai soggetto. E che pertanto può essere abusato, anche da sè. Con violenza e curanza. Certamente, non avrebbe potuto mancare la sensazione "dell'amore" che in "Tess of the D'urbervilles" è un sentimento straziante, amaro e disperato. E' amore incompreso ed incomprensibile, inspiegato ed inspiegabile, combattutto ed allontanato. Eppure presente. Puro nella sua sensualità: "Il rapido torrente correva e turbinava sotto di loro, agitando, torcendo e infrangendo il volto riflesso della luna. Macchie di schiuma viaggiavano veloci e intercettavano le erbacce ondeggianti dietro i pali. Le loro braccia erano così strettamente avvinghiate insieme, che se in quel momento fossero entrambi caduti nella corrente non si sarebbero potuti salvare. Avrebbero lasciato il mondo quasi senza soffrire e più nessun rimprovero sarebbe stato rivolto a lei, e a lui per averla sposata. La loro ultima mezz'ora insieme sarebbe stata d'amore mentre, se fossero vissuti sino al suo risveglio, sarebbe tornata la sua avversione per lei e quest'ora rimarrebbe per essere contemplata solo come un sogno passeggero." Ed infine, ovviamente, avrebbe dovuto emergere, leggera, la "letterarietà" di una fonte imperfetta, a volte didascalica (già nel sottotitolo " A pure woman") e pedantemente educativa ed esplicativa. Eppure potentissima. 

Mi assale ancora quell'immagine, le nebbie di Stonehenge. In un gelido mattino. Certo umido, come in questa Newcastle addormentata attraverso la quale sto camminando. La pioggia sottile ma penetrante. Un'immagine sì. Ma nulla più. Perché nulla resta, né impressione né sensazione, di una trasposizione cinematografica tanto precisa e corretta, quanto vuota. Quello che è "Tess". Nulla, della disperazione e della miseria. Nulla della aridità dell'animo umano e di una innocenza a cui non si vuole abdicare. Nulla, della lotta contro un mondo in cui ci si sente sempre estranei; della speranza di ottenere anche solo un gesto di pietà da un Dio assente. Nulla della attrazione e della repulsione, del rispetto formale ma del disprezzo intimo. Nulla della rassegnazione e della pazienza: "pazienda, quella mescolanza di coraggio morale e pavidità fisica". Nulla della impossibilità dell'amore, se non come espiazione.  Nulla della sanguigna ingenuità di Tess nel volto troppo perfetto della Kinski. Nulla, nella regia fredda di Roman Polanski (che indugia nei primi piani, che si perde nella campagna del Wessex ricostruita in Bretagna e Normandia). Nulla nella fotografia troppo pulita. Nei dialoghi che tolgono, come se l'assenza (di parole) scavasse una profondità, che non esiste. 

La breve parabola di Tess, come descritta nel romanzo, è tanto banale quanto tragica. C'è in questa giovane donna una spontanea e rassegnata consapevolezza del dolore. C'è, nella narrazione, tutta la fatica della vita. Le privazioni, la grettezza, il cinismo: "Lei, Tess, non era un'esistenza, un'esistenza, una passione, un complesso di sensazioni per nessuno all'infuori che per se stessa. Per tutto il resto dell'umanità, Tess non era altro che un pensiero fugace". L'amore, anche il più profondo, è colpevole e sempre lontano. Nulla resta, appunto, in "Tess" 

Rientro in hotel. La tappezzeria retrò, i toni marroni artificialmente illuminati da lampadari troppo grandi e pesanti. Lo stile vagamente ottocentesco, l'atmosfera decadente, mi pare partecipino al pensiero e al sentimento. Il ristorante è ancora aperto, ma di mangiare, da sola, proprio non mi va. Salgo direttamente in camera, accendo il pc. Quella canzone continua a risuonarmi nella testa. Digito "The snows it melts", cerco su youtube, trovo la versione che stavo cercando. La ascolto. Mai come stasera mi sembra poter parlare di me, per me e con me, attraverso le note stentate ed irregolari che escono da un flauto imperfetto. 

Ritorno sul motore di ricerca e digito "the snows it melts tess of the d'urbervilles": ora ricordo! Tempo fa vidi questa scena, tratta dallo sceneggiato BBC. Mi colpì molto l'utilizzo della melodia. Ecco perché poco prima, questo tema tradizionale della Northumbria (1) (ma ho scelto l'arrangiamento folk irlandese) mi aveva riportato a "Tess of the D' Urbervilles". Il nesso appare ora in tutta la sua logicità:

Mi appresso alla finestra. I venti continuano a cantare, battendo sui vetri. In questo febbraio tanto freddo, chissà se scioglieranno le nevi, lassù, al nord. Resto lì, ferma, guardando senza vedere la strada deserta, sussurrando il testo della melodia. Ripensando, quasi con imbarazzo, alla inattualità di un romanzo ottocentesco che parla di innocenza. Una impressione, ma anche un argomento, che si perde nel momento stesso di cercarlo. Spesso evocato, quasi mai trovato.

Più ragiono, più rileggo, più mi convinco di non avere saputo (o voluto) modellare un pensiero. Tantomento una analisi o una meditazione. Doveva essere un post, non so che succede al mio computer

Forse solo esprimere una sensazione: un gesto di appartenenza emotiva, e di condivisione sentimentale, ad una canzone, che racchiude un mondo. Il mio.

(1) "O, the snow it melts": the melody was printed in Bruce and Stokoe's Northumbrian Minstrelsy in 1882, which also mentioned its publication in 1821 and noted that the contributor of the song was Thomas Doubleday (1790–1870), who put it to a melody ("My Love is Newly Listed") learned from a Newcastle street singer.

Non chiedetemi che significa. Semplicemente: non lo so. 

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