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Cairo International Film Festival
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Mi trovo a Il Cairo da più di quattro mesi per lavoro e ho sfruttato l'occasione per andare a vedere qualche film alla 37° edizione del Cairo International Film Festival, che è svolto nella bellissima Opera House dall'11 al 20 novembre. Purtroppo, per incompatibilità di orari, sono riuscita a vedere solo cinque film internazionali e uno egiziano.

 

Sono stata qualche volta a Venezia, durante il Festival del cinema, e pur essendo molto diverso, molto più in “stile ridotto”, l'atmosfera che si respira qui è molto simile. Dipenderà anche dal fatto che Cairo è una città difficile, bellissima ma inospitale, e ogni giorno che passa sempre più pericolosa (giusto l'altra sera un collega è stato aggredito sotto casa, in un quartiere residenziale più che tranquillo, da un gruppo di ragazzotti che volevano rubargli il computer).

 

Superati i cancelli che portano all'Opera, un complesso colossale dedicato alla musica e all'arte, sembra di avere lasciato la città: non si sentono più i rumori del traffico (che è imparagonabile a quello di qualsiasi città europea, mi hanno detto che solo in Afghanistan è peggio), i clacson e la gente sembra diversa da quella che si incontra in metropolitana, che ti spintona e, normalmente, ti guarda in modo ostile. All'interno dell'Opera tutto è pulito, non come nelle altre strade della città, che a un italiano sembrano una discarica a cielo aperto. Tutte le sale dove sono stata, la Main Hall (la sala principale, che un po' ricorda i teatri ottocenteschi), la sala Creativity, alta e stretta in una specie di torre, la sala Hanager, la più comune tra tutte, hanno il solito problema (assolutamente personale) che ho riscontrato in tutti i posti al chiuso qui in Egitto: l'aria condizionata a una temperatura di almeno 15 gradi meno dell'esterno. Peccato che siamo a metà Novembre e che fuori ci sia una gradevolissima temperatura sui 25-28 gradi. Visto che la matematica non è un'opinione, dentro fa freddo. La sera le sale sono piene di giovani e meno giovani. Di mattina (io ci sono stata solo il venerdì e sabato, che qui è il fine settimana), non c'è quasi nessuno: io mi sono trovata a vedere uno dei film nella Main Hall con altre 12 persone.

 

 

L'ambiente è internazionale, si sente parlare tanto in inglese (che però non fa testo perché lo parlo anche io con la mia collega) e francese. Ci sono anche tanti egiziani, tanti giornalisti e persone dotate di pass. Molti personaggi vengono intervistati in un angolo attrezzato stile programma televisivo, che un po' fa tenerezza nella sua semplicità. Nonostante la situazione non facile, per dieci giorni in questo angolo della città si sta bene.

 

Non voglio raccontare la trama dei film per non rovinare la sorpresa a nessuno, ma condividere solo qualche commento, più di carattere emotivo che frutto di una vera e sensata riflessione.

Ho iniziato venerdì 13 con “Madame Courage”, un film franco algerino sulla desolazione delle periferie urbane. La madame del titolo è la droga che il giovane protagonista utilizza per scappare dalla pochezza economica, sociale ed economica che lo circonda. Il giovane ladruncolo, che vive in una baraccopoli che ricorda la città nella città di “Brutti, sporchi e cattivi”, contribuisce, insieme alla sorella che esercita il mestiere più antico del mondo, al mantenimento della famiglia, mentre la giovane madre passa le giornate in uno stato di annebbiamento culturale e morale prodotto dalle parole di un predicatore che, da una radio sempre accesa, giorno e notte, diffonde il messaggio di non si sa quale profeta. Dopo una spirale crescente di violenza, il giovane sembra intravedere la possibilità di una vita diversa, grazie all'amore. Ma il finale è aperto, e spesso questo significa che l'eventualità di un cambiamento è molto remota.

 

Sabato mi sono concessa una mattineè con il film di Costanzo “Hungry hearts”. Bellissimo, con due attori bravissimi e angosciante come tutti i film ben fatti. Quanto può far male il bene spinto all'accesso? Questa è la domanda del film che porta ad altre riflessioni. Tanto è vero che alla fine mi sono domandata “E se avesse avuto ragione lei?”.

 

Domenica ho visto “Deephan”, vincitore dell'ultimo festival di Cannes. Altro film molto violento, ma tecnicamente di migliore qualità e con una storia di più ampio respiro: se i primi si svolgono all'interno di una paio di quartieri di una sola città, questo attraversa i continenti, dallo Sri Lanka alla Francia e infine all'Inghilterra. La storia è dura, un incontro difficile tra due mondi poveri in modo diverso: da una parte la povertà di un paese stremato da una guerra civile e dall'altra una diversa guerra civile, di un paese nel paese, ricco economicamente ma senza valori e dignità. Anche in questo caso la risposta, e la soluzione, la si trova nell'amore.

 

Lunedì ho deciso per l'ultimo film di Wim Wenders, scelto perché è uno dei miei registi preferiti. Per lui ho rinunciato a vedere un film egiziano che probabilmente non sarà mai distribuito nelle sale italiane. Sono contenta della mia scelta. I personaggi di “Everything will be fine”, che credo sia una delle frasi più stupide che si possano pronunciare, sono perfetti nella loro imperfezione e nella loro infelicità. Il protagonista è alessitimico, non riconosce le emozioni proprie e altrui, e vive una vita di banale infelicità. Il ragazzo che incontra è davvero infelice, a causa di una tragedia più grande di lui e per entrambi ci sarà un finale sorprendente.

 

Mercoledì sera un altro filmone, l'ultimo di Jonathan Demme, “Ricky and the Flash”. Questa volta scelto più per Meril Streep che per il regista. Anche se anche lui non mi dispiace. Un genere ancora diverso rispetto ai precedenti: la regia, la fotografia, la luce, tutto molto hollywoodiano. Anche questa volta si tratta di un conflitto interno, familiare. Qui però una riflessione socio culturale proprio mi scappa: quanto è differente la responsabilità, a seconda del genere. Se è il padre che insegue il suo sogno, a scapito della famiglia, è al massimo una scavezza collo; quando però a farlo è la madre, allora è una poco di buono, la causa di tutti i problemi futuri dei figli. Comunque, a parte questo dettaglio, il film è gradevolissimo, c'è delle buona musica, e lo scontro di civiltà tra ricchi borghesi con la villa e il cane col pelo pettinato e la rock star scarmigliata che non ha i soldi per il taxi è davvero esilarante. Il finale è diversamente interpretabile, tanto che la collega che lo ha visto con me, ha espressi un parere opposto al mio.

 

L'ultimo film, gentilmente offerto dalla collega perché io avevo già finito il mio carnet (ho comprato l'ultimo a disposizione), è un documentario di una giovanissima regista egiziana che spero possa essere visto anche in Italia. “Present from the past” è la storia dell'incontro tra un uomo e una donna che si sono amati e non si sono visti per più di trent'anni. È la storia vera del padre della regista a cui la ragazza regala un viaggio a Roma per cercare la sua ex fidanzata. Girato con un telefono cellulare, una video camera negli occhiali e un altro piccolo apparecchio, quasi tutto con la camera nascosta, è il viaggio nella quotidianità di una famiglia che per un momento si allontana dalla strada segnata per buttarsi nell'avventura. Il risultato di questo esperimento è davvero notevole. La giovane regista è simpaticissima ed è stata felice di scambiare qualche parola con me, visto che sta studiando l'italiano.

 

Non so quale film abbia vinto il concorso, ma io sono felice di aver respirato per qualche giorno un'aria diversa, più ossigenata, con un gran beneficio per il mio cervello e per il mio cuore. Adesso sono pronta a ritornare alle mie attività più grevi.

 

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