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Suburra: la non recensione in anteprima
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C’è del marcio a Roma. Tanto, tantissimo. E andare a vedere Suburra (in anteprima) il giorno dopo che il sindaco Marino dà le dimissioni (le dà? non le dà? Le da!) un po’ fa impressione. Però, lo sappiamo, il marcio non è Marino e Suburra - adesso lo sapete anche voi - non è un film politico. Non è nemmeno Gomorra, nonostante i rapporti (Stefano Sollima, regista di Suburra ha diretto Gomorra - La serie) e le assonanze. Nonostante si racconti, estesamente, dell’intrigo tra politica, finanza e malavita, nonostante siano riconoscibili figure e momenti della recente storia politica nostrana, nel film non c’è un preciso pensiero politico o di denuncia, almeno non più di quanto ve ne sia in un articolo di cronaca. Con, per di più, il fatto che si tratta di un articolo di cronaca di 4 anni fa.

Adamo Dionisi

Suburra (2015): Adamo Dionisi

Il film si svolge infatti tutto in 7 giorni del mese di novembre del 2011, esattamente i 7 giorni che hanno preceduto la caduta del 60° governo della Repubblica: il papa era Ratzinger, il Presidente del Consiglio era Berlusconi (e stava per finire come sapete). Altri fatti di cronaca riaffiorano, mescolati, distorti. Per esempio sembra chiaro che per la vicenda che scatena una serie di intrecci e che vede coinvolto Favino, nei panni di un deputato di destra a cui piacciono i festini erotici con escort e droga, si sia fatto riferimento al caso dell’ex-deputato dell’UDC Cosimo Mele (caso che però risale al 2007). E sicuramente la famiglia Anacleti echeggia quella dei Casamonica: come loro sono sinti e come loro spiccano per il buon gusto. E ancora sembra abbastanza evidente che il personaggio di Amendola, il Samurai, sia ispirato a Massimo Carminati, l’ex Nar poi legatosi alla Banda della Magliana e figura centrale dell’inchiesta su Mafia Capitale.

Intendiamoci, quattro anni sono pochi e i fatti di cui si parla sono ancora ferite vive e aperte: alcune cose sono cambiate, non tutte purtroppo e di certo l’intreccio tra politica e malaffare è ancora presente e condiziona la capitale quanto il Paese tutto. Ma il fatto è che il film - liberamente tratto dal romanzo omonimo di Carlo Bonini e di Giancarlo de Cataldo - usa questo ambiente come scenario per la costruzione di un film di genere. Un genere che nelle sue note Sollima intende nella sua accezione più classica: “spettacolare, avvincente ma anche popolare”. E cha definisce anche “western metropolitano”.

Per apprezzare quest’opera bisogna pertanto sganciarsi dalla tradizione del cinema sociale e accostarsi a quella - se volete più bidimensionale - del noir criminale. Moderno, per di più. Il film è infatti una sorta di lussuoso episodio pilota della serie omonima che Stefano Sollima girerà presto e che sarà prodotta da Cattleya e Netflix in collaborazione con la RAI, verrà trasmessa nel 2017 su Netflix e poi anche sui canali RAI. Va da sé che il futuro serial permetterà di approfondire meglio non tanto i personaggi, quanto l’intero ambiente. La sensazione è che di materiale ve ne sia tanto (come del resto è nel romanzo, che il film necessariamente ha ridotto, operando tagli e scelte narrative) e che probabilmente i molti episodi di una serie consentirebbero di godere molto più delle ricostruzioni e degli ambienti di quanto non si possa fare nel film.

Questa nota non è casuale: costato 7 milioni di euro, il film ha dalla sua una alta e in certi casi altissima qualità delle ricostruzioni degli ambienti. Spiccano su tutti gli interni: se La grande bellezza racconta della Roma barocca e si incanta davanti ai fasti architettonici della Capitale, Suburra rifugge da qualsiasi tentazione e, con correttezza etimologica, si rifugia nel ventre della città, nelle case e nei palazzi. In certi casi, se vi farete attenzione, il lavoro è estremamente competente e luoghi come l’abitazione del clan Anacleti, come gli appartamenti di papa Ratzinger o la casa della madre del Samurai o ancora il bar dove il potente Samurai riceve le ambasciate rivelano una mano molto felice, capace di definire con precisione e realismo mondi anche assai distanti tra di loro. Va anche detto però che al momento né il regista né il cast della serie sono definiti e quindi è possibile che la mano che guiderà sia in futuro del tutto diversa.

 

Questa capacità di definire le ambientazioni tuttavia assiste molto bene la vicenda: fotografia e scenografia sono eccellenti e la regie ne gode e ne approfitta, muovendosi meno del solito ma con sicurezza e con gusto. E mentre sugli esterni di Roma piove e tuona quasi sempre - quasi come una sorta di rombo del cielo ad anticipare una sciagura biblica - negli alberghi, nei palazzi, nei centri commerciali e nelle discoteche si incontrano e si consumano le esistenze di personaggi tutti egualmente dannati, tutti egualmente disumani: lo sono i politici, lo sono i religiosi, non si salvano nemmeno le donne, vittime comprese.

Forse è proprio questa coralità della dannazione a lasciare un po’ freddi: i meccanismi di identificazione non riescono ad attecchire e si partecipa senza avere da che parte stare né nessuno per cui temere, in un mondo di miserabili dove  il meno peggio è un traditore e un codardo. Mancando l’angoscia per un qualsiasi personaggio, manca il thrill: tutto resta sullo sfondo in egual misura. Non solo: manca anche un minimo di pietas per qualcuno di questi personaggi da girone dantesco. Causa probabilmente ancora la coralità, che spinge le molte storie a condensarsi in pochi spazi, manca anche la possibilità di comprendere percorsi e in qualche modo giustificare l’operato di chicchessia. Siam ben lontani da una figura come quella di Cesare in Non essere cattivo. Qui non c’è possibilità di empatia con alcuno né possibili redenzioni. È forse è giusto così.

Alessandro Borghi

Suburra (2015): Alessandro Borghi

Una nota per il cast: due su tutti rubano la scena, E non sono né Favino, né Amendola, né Germano (al quale è rimasta sulla schiena una sorta di gobba virtuale dopo aver interpretato, assai bene, Leopardi). No, sono Alessandro Borghi (visto di recente appunto in Non essere cattivo) che recita la parte di un violentissimo e pericoloso coatto di Ostia e Adamo Dionisi, che nel film è il capo del clan di sinti. Sono quelli che più si ha voglia di rivedere in scena, guarda caso i meno scaltri e i più brutali nella loro violenza, i più vigorosamente ma anche stupidamente e ciecamente cattivi.  

 

PS: nota al piede, scritta due giorni dopo la visione e dopo ripensamento. Forse non è giusto dire che non c’è “politica” in senso ampio in un film che dice chiaramente, senza mezzi termini quale sia l’intreccio scandaloso e letale in cui Roma è caduta (e se c’è dentro Roma ci siamo dentro tutti…). Fatto sta che il puro ritratto di un dato di fatto, preso come tale, senza approfondimenti che qui del resto sarebbero di troppo, non consente di comprendere come si sia arrivati a ciò. Le responsabilità sono solo colpe e non se ne traccia il percorso, ma si spettacolarizza il risultato. Finendo con il convincere a metà.

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