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I film che cambiano la vita : il mio 8½, capolavoro assoluto della cinematografia mondiale (una pseudo-recensione scritta in forma di racconto) – PARTE SECONDA.
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“La sceneggiatura è come la valigia che ti porti appresso, ma molta roba la comperi per strada”. (Federico Fellini)

 

Tutto qui è comunque reso estremo e lacerante, ed è per questo ancor più apprezzabile  il “coraggio” con cui Fellini (attraverso il Guido reso indimenticabile da Marcello Mastroianni che ben lo rappresenta anche fisicamente), si espone pubblicamente con una  impudica determinazione che ce lo fa percepire nudo e vulnerabile (pur con qualche “omissione aggiustativa”). La sceneggiatura è davvero per lui come una valigia che ci si porta appresso piena solo a metà ma da riempire all’occorrenza con le molte cose che si possono acquistare  per strada, lungo il cammino. Una vera e propria dichiarazione programmatica che qui diventa la premessa indispensabile per rendere possibile la costruzione “in progress” di un film che non c’è ancora (e quindi in divenire)  e non si è  del tutto certi che potrà davvero esserci in futuro, in cui in alcune scene (come quella del litigio fra Guido e sua moglie Luisa nella camera da letto dell’albergo) sono state girate addirittura prima che i dialoghi fossero pronti e disponibili, e si è supplito di conseguenza costringendo gli attori a pronunciare una sfilza di numeri al posto delle parole che poi si ascolteranno in sala (cosa facilmente verificabile come reale, al di là delle comunque attendibili indiscrezioni, proprio con una attenta osservazione delle immagini che evidenziano  la macroscopica mancanza di  corrispondenza del labiale rispetto alle frasi pronunciate, che va ben oltre a quella dovuta alla diversità lessicale derivante dalla differente nazionalità degli attori che si esprimono ciascuno nella propria lingua). Un azzardo totale e che arriverà persino a far realizzare ipso facto, quel magnifico finale (vero colpo di genio sviluppato all’improvviso prendendo spunto dal girato  per un trailer che aveva l’esclusiva funzione di pubblicizzare l’opera) che sconvolgerà totalmente  la sceneggiatura originale (puntualmente pubblicata a suo tempo da Einaudi), che finiva in tutt’altro modo (anche se con qualche piccola attinenza “contenutistica”):

 

Carrozza ristorante. Interno. Notte.

Guido e Luisa siedono a un tavolo, in attesa che il pranzo sia servito. Non parlano, sono assorti, ciascuno nei suoi pensieri. Poche persone stanno all'altro tavolo, c'è su tutto un senso di silenzio e di solitudine. Il treno viaggia a forte velocità. Guido segue con lo sguardo, oltre i vetri, il rapido apparire e sparire del paesaggio notturno (...) Guido volge lo sguardo verso l'interno del vagone, distrattamente lo posa su Luisa con intensità. Luisa alza gli occhi; li fissa in quelli di lui. Uno sguardo che è come una reciproca domanda, un reciproco tentativo di scoprirsi. Guido torna a guardare oltre i vetri; Luisa volge gli occhi altrove. Le irreali, fantastiche immagini del mondo notturno che il treno  sta attraversando velocemente, irrompono improvvisamente dall’esterno, appaiono e spariscono, appaiono e spariscono al ritmo delle ruote sulle rotaie. Ancora una volta Guido porta lo sguardo verso l'interno del vagone ma ora la carrozza, con i suoi tavolini illuminati, gli appare lunghissima, irreale come il paesaggio esterno, e i tavolini sono tutti affollati, Una strana folla, quieta, composta, silenziosa: il padre e la madre, il cardinale e la Saraghina, Claudia e Carla, le donne dell'harem e Carini, il fachiro, i telepati e Mezzabotta, tutti i personaggi della vita di Guido, tutti uniti nello stesso viaggio verso la stessa meta , nessuno rifiutabile, nessuno rinnegabile, tutti quietamente sorridenti a Guido come buoni compagni... Il viso di Guido si altera in una commozione profonda, riconoscente. I suoi occhi si illuminano come per una scoperta improvvisa. Si alza in piedi, le sue labbra si muovono come se pronunciasse delle parole rotte, sconnesse... Luisa lo sta guardando stupita, anche il cameriere che si disponeva a servirlo è rimasto col gesto a mezz’aria, interdetto. Guido, ritto in piedi, il viso illuminato, sta dicendo confusamente a tutti, al pubblico della platea: Sì, sì.. E' giusto, è giusto... ho capito... è facilissimo... è come se... tutti insieme... io... voi... oddio come spiegarvi? Grazie, grazie a tutti... Bisogna solo che... Non frenare… Non opporsi... E' facilissimo... è tutto bene... tutto bene... soltanto che...

Poi si interrompe, si guarda attorno smarrito. La carrozza ha ripreso le sue normali dimensioni, il suo aspetto normale; la folla è sparita. Luisa e il cameriere lo stanno guardando interdetti. Guido, ancora confuso ma tutto commosso, abbozza un sorriso e torna a sedersi. Rimane a testa china, in uno smarrimento totale e felice, mentre il cameriere lo serve. Poi, quando questi si è allontanato, leva nuovamente lo sguardo su Luisa. La percezione che per un istante ha avuta, è già svanita come un sogno; ora egli cerca affannosamente di chiarirla, riafferrarla, definirla, ma non vi riesce, e tuttavia gliene è rimasta una commozione intensa, felice... Con moto improvviso, tende la mano sulla tavola e stringe quella di Luisa. Guarda di nuovo verso il pubblico della platea in un estremo tentativo di comunicare "qualcosa" che è già lontanissima, dimenticata, inafferrabile... Lo schermo si abbuia lentamente e sullo schermo buio si ode soltanto sicuro grandioso potente il ritmo inarrestabile del treno lanciato fiduciosamente dentro la notte.”

 

La sua spietata scorribanda nei “perché”, il suo bisogno di capire e di capirsi, è certamente una forma indotta di autoassoluzione, adottata però da Fellini tutt’altro che a cuor leggero. Non si giustifica infatti:  cerca soltanto di comprendere, non di “glorificare” (e questo non accade nemmeno nella scena dell’harem o nel finale, dove si accende sicuramente un filo di speranza, ma   pieno di nostalgia e di rimpianti).

La mia contrarietà assoluta a definirlo un intellettuale nasce poi dal fatto che il regista non fa mai assumere al suo alter-ego – il Guido Anselmi  protagonista dell’opera, l’altro se stesso -  le sembianze antipatiche che indubbiamente Fellini attribuisce a quella speciale ed elitaria categoria di persone (gli intellettuali, appunto), verso cui è sempre stato molto “critico” e lapidario, oltre che poco conciliante: l’intellettuale Steiner de “La dolce vita” lo fa suicidare dopo che ha ucciso i suoi figli esprimendo così uno sconfortato giudizio quasi rabbioso di impotenzae di codardia. In poi è ancora (se possibile) più radicale: estremizza infatti  da subito la sua malcelata “avversione” rendendo percettivamente sgradevole  il personaggio che ne incarna le sembianze (l’ottimo Jean Rougeul) : ridicolo e saccente con la sua insopportabile erre moscia strascicata,  logorroicamente torrenziale nel suo insistito,  costante blaterare. Arriva persino ad immaginarselo“impiccato” questo implacabile “grillo parlante” che spara giudizi inappellabili senza mai un minimo di indulgenza mettendo in discussione anche  il suo essere un vero artista  (analoga posizione di insofferenza Fellini la esprime verso la critica in generale, compreso quella più “mondana” che lui sopporta davvero poco, vedi la scena della conferenza stampa e il suo rifugiarsi “metaforicamente” sotto il tavolo quando non ce la fa più).

Sono queste le sostanziali differenze che – spostando il baricentro da “intellettuale” ad “artista”, mi fanno dire che l’approccio di Fellini non è stato quello di voler fare un film sul cinema (come da più parti si è inopinatamente dichiarato e che sarebbe stato un obiettivo perfetto per un intellettuale) ma di voler semmai rappresentare da “artista”, la difficoltà di creare (o meglio, di rendere compiuto il processo creativo).

Personalmente quindi io non riesco a vedere alcun parallelo per esempio con Effetto notte di Truffaut (ma oggettivamente nemmeno con  alcuna altra opera similare realizzata in precedenza) che in molti hanno citato invece come il più prossimo e “certo”fra quelli proponibili. Questo,   perché a mio avviso è diametralmente opposto il terreno in cui si muovono queste due opere: Truffaut, impietoso e sarcastico, “cesella” il tutto osservando dall’esterno; Fellini “scarnifica” invece la materia operando dall’interno e per farlo,  inventa di sana pianta “una nuova, insolita maniera di fare il cinema” partendo appunto dal travaglio – vero o supposto - della sua anima stretta fra più fuochi (asa nisi masa, appunto) mostrandoci tutta la sofferenza nel non riuscire a trovare le risposte giuste ai suoi “perché”.

Molte sono le scene cult che vengono giustamente ricordate. Ce n’è fra le tante,  una altrettanto straordinaria ma decisamente  meno celebrata, che mi ha sempre colpito (non più delle altre, ma quasi) carica com’è  di pathos e di significati sottotraccia. E’ quella che racconta con le immagini una serata mondana nel Circolo delle feste delle Terme e ci mostra un’anziana ed elegante chanteuse in tenuta semi-lesbica che ha appena finito di cantare una ballata tedesca simile a quelle che resero famosa Zarah Leander. Al termine della ballata, l’atmosfera cambia però radicalmente nel giro di un secondo grazie all’orchestra che attacca un fragoroso  twist. Ci troviamo così davanti all’improvviso una folta chioma nera che copre il volto di una donna nel pieno del suo splendore giovanile: lei butta indietro la testa rivelando un sorriso di trionfo e mentre la macchina da presa arretra, quasi a volerne prendere le distanze, la vediamo ballare con un gentiluomo dai capelli brizzolati, quasi bianchi, decisamente molto più anziano di lei (lo si evince anche dal suo continuo sbuffare un po’ affaticato che denuncia  la sua evidente difficoltà a tenere il passo con lo scatenato dimenarsi della ragazza).

Lui sorride compiaciuto mentre lei si stacca per continuare a ballare da sola. Fellini ci aveva già fatto incontrare  prima questa strana coppia: lei è Gloria (magnificamente disegnata dalla corrusca[1] e un po’ ambigua bellezza di Barbara  Steele) , una “studentessa” che sta preparando una tesi dal titolo La solitudine dell’uomo moderno nel teatro contemporaneo; lui è Mario Mezzabotta (Mario Pisu), un vecchio amico del protagonista. La scena, concisa ed efficacissima, è perfetta  e magistrale: Fellini, accennando coraggiosamente anche a se stesso e al suo vissuto un po’ disordinato in campo sentimentale (non è certamente casuale il fatto che sia ancora Mario Pisu a rivestire i panni del marito in Giulietta degli spiriti, film “risarcitivo” nei confronti di Giulietta Masina col quale – è una mia personale interpretazione – sembra volerle chiedere scusa per essersi così pubblicamente “sputtanato”)  e con  pochi tratti e l’uso fulminante della musica, riesce a mettere “cinicamente” in evidenza ma senza troppo infierire, il ridicolo di questa ostentazione di una giovinezza ormai perduta e l’altrettanto discutibile acquiescenza della giovane amante  attratta soprattutto  dall’interessato “fascino” che esercita l’uomo di potere e il suo denaro (si diceva allora che il modello di riferimento era stato quello della coppia Ponti/Loren qui fissata sullo schermo con una deformazione certo un poco caricaturale, ma immune da ogni antipatia).

Per dure questo, per ottenere il risultato voluto, a Fellini  è dunque bastato “semplicemente” contrapporre al lesbo-chic tipico degli anni trenta (l’attempata cantante, appunto, scritturata per intrattenere le numerose frequentatrici “saffiche”  di una certa età che affolla(va)no le terme, la  giovane poliformica sessualità della ragazza che la sola magnetica presenza di una  Steele in stato di grazia, rende eroticamente inquietante (oltre che sotterraneamente “perversa”) e come tale capace non solo di saldare fra loro passato e presente, ma anche di rendere  unico e indimenticabile questo momento.

 

Voglio far ordine…. Voglio far pulizia….

Le donne del film sono davvero tante… tutte importanti e indispensabili (anche quando appaiono quasi di sfuggita o in una sola inquadratura). Sarebbe dunque troppo lungo e laborioso soffermarsi su tutte,.e non lo farò: promesso!  Non posso però esimermi dallo spendere qualche parola sul personaggio di Claudia (figura davvero centrale  affidata alla bellezza angelicata della Cardinale colta nel momento più aureo e splendente della sua carriera). Devo farlo però partendo da Rossella (la Falk), l’amica della moglie Luisa, alla quale Fellini ha affidato l’arduo compito di esprimere il giudizio impietoso sull’uomo in quanto tale (quindi diviso dall’artista). Rossella è dunque una persona che attiene al suo privato (quello di Guido/Fellini) ed è per questo che non fa sconti poiché lo conosce troppo bene e lo stima molto poco visto che non si è mai lasciata “accecare” da ciò che ha espresso sullo schermo. Forse è proprio per questo che Fellini ha sentito il bisogno di inventarsi un  contraltare che sul piano dell’arte che sia capace di svolgere lo stesso ruolo “giudicante”, ma che lo possa fare valutando anche la sua figura di artista, e che per questo sia più “pietosa” e accomodante, in grado insomma di  accettarlo  in toto, comprese le sue cadute e trasgressioni.

 E’ appunto questo ruolo che svolge  Claudia nell’economia del film (cosa rappresenta? la ”grazia”? l’”ispirazione?: io propendo per questa seconda ipotesi, ma ogni suggerimento al riguardo è ben accetto), attrice sulla cresta dell’onda a cui Guido intende offrire un a parte nel suo “non” film in costruzione. Di fatto però lei è anche una idealizzazione quasi “sognata” e portata alle estreme conseguenze della trasfigurazione (tutto è giocato sulla contrapposizione del bianco  e del nero dei costumi) che la rende una figura estremamente impalpabile, quasi un ideogramma che si concretizza in tale forma già in quella prima apparizione alle Terme che precede l’effettivo arrivo della diva.

Sarà infatti  proprio con lei (o meglio con l’attrice che dovrebbe impersonarla, che è poi la stessa cosa), che Guido/Fellini si confronta sulle sue defaillances “private”.

 Importante e decisivo il loro dialogo in auto nella strada di campagna deserta e buia quando Claudia lo ascolta con attenzione piena di buona volontà, ma anche lei incapace di “capire” (comunque interessata come una bambina a quel raccontarsi che lei percepisce quasi come una favola):

Guido: .. L’ha vista, le ha parlato, poi ci ha costruito sopra delle immaginazioni... ma sgangherate, che lui stesso non riesce a concretare… Non riesce a cavarne un senso… Insomma, il tuo personaggio… il personaggio di questa ragazza… dovrebbe un po’ rappresentare le sue aspirazioni diciamo sentimentali. Anche se non riesce a concretarla… a realizzarla… per lui è importante, molto importante.. non può rinunciarvi.. perché se vi rinunciasse… è come se perdesse qualsiasi speranza… Capisci? (Ride, cambia tono)  Tanto è vero, che ti ho fatta venire…

Claudia: Ma questa ragazza, chi è? Una studentessa? O lavora?... Dove l’ha conosciuta?...

Guido: Dovrebbe averla incontrata qui…. No, non è una studentessa… Prima avevo pensato che fosse la figlia del guardiano di un Museo, cresciuta  in mezzo ai quadri antichi… quasi un’immagine antica anche lei; proprio italiana… Poi, no, forse abita vicino a un casello ferroviario… Lavora alle Terme, o in albergo… E’ una ipotesi…

Claudia: Come, un’ipotesi? Ma c’è, questa parte, nel film? Mi sa che non l’avete ancora nemmeno scritta…

Guido; No, non è scritta… E non è stata nemmeno imventata.

Claudia: Ma scusa, io quando comincio… E cvme fai a cominciare tu?

Guido: Incomincio, sta’ tranquilla. Fra quindici giorni Ride, poi riprende, in altro tono) …Sai, questo è un film un po’ particolare, per me… I personaggi devono nascere un po’ dalle circostanze, soprattutto il tuo… Non hanno una vita autonoma… (Poi in tono di affettuosa presa in giro , chiede) …Sai cosa vuol dire, autonoma?

Claudia: Autonoma? … Sì, autonoma…

Guido: Tu, per esempio, sei mai stata innamorata?... Di un tipo così, tu potresti innamorarti?...

Claudia: Ma lui, scusa, è sposato o no?

Guido: Sì, te l’ho detto. E ha pure un’altra donna, un’amante…

Claudia: Ah! E allora cosa cerca?? Se sua moglie gli vuole bene, non mi sembra mica tanto simpatico…

Guido: No, forse non è simpatico.. Perché deve essere simpatico?

Claudia: Ma almeno, lui, alla moglie le vuole bene? La moglie chi la fa? Ha una parte grande?

Guido: Non lo sa, se le vuole bene… In fondo, sì, molto… Ma è il suo rimorso continuo… si può voler bene a un rimorso? Gli diviene sempre più sconosciuta, come un giudice, che anche se sorride, sai che ti condanna… E l’altra… è una specie di ricordo… una specie di madre, nutriente, ma anche distruggitrice… Mi segui?… Hai capito?

Claudia: Capisco solo una grande confusione…

Poche volte un artista ha raccontato una crisi con tanta ricchezza di invenzioni e immagini, con maggiore libertà di intonazioni e associazioni”. (Tullio Kezich)

Sul versante  del giudizio della critica, posso confermare che il dibattito fu da subito molto acceso e interessante. Diciamo che sotto questo profilo fu immediato il prevalere del positivo (ma senza quel consenso plebiscitario che ci si sarebbe potuti attendere). Per esempio, i recensionisti formatisi alla scuola aristarchiana, gramscianamente convinti della necessità di far prevalere il "messaggio" (o meglio un certo tipo di messaggio), rispetto  al “troppo personale” di quest’opera, pur riconoscendone i meriti formali (era davvero impossibile non farlo), ne evidenziarono – anche se con qualche distinguo - quelli che  ritenevano fossero i pesanti "limiti" contenutistici del film. Lo stesso Aristarco[2] (colto sul vivo perché aveva ben compreso  che Fellini col personaggio odioso del critico intellettuale si riferiva proprio a lui), nel suo volume “Il dissolvimento della ragione” ne parlava così:

 “Nell’immaginazione, l’autore di , attraverso il regista Guido Anselmi, sua proiezione autobiografica, ci impicca addirittura (nel critico, l’intellettuale Carini, poi diventato Daumier, è adombrata la nostra persona, specie nelle originarie intenzioni)” e ancora: “ Anche per Fellini il mondo è immodificabile; a differenza di Antonioni, in questa sua posizione, egli tuttavia assume un atteggiamento mistico, non “laico”. L’unico movimento possibile all’uomo, afferma la sua opera, è fuori dalla Storia, si verifica all’interno dell’uomo stesso, nel suo mettersi in rapporto come Singolo con il Singolo Assoluto (Kierkergaard). In per la prima volta ci presenta un mondo ridotto a cosa, immobile e “alienato” in cui l’individuo tenta invano di librarsi in aria, liberarsi. Nell’ambito del suo impressionismo, si allinea con la letteratura d’avanguardia, lascia che il tempo rompa gli argini in cui scorre ordinato, si affida al sorgere improvviso di ricordi, sogni, stati d’animo. Al flusso della coscienza, a un interminabile monologo interiore fa fare il resto. Il rimando a Joyce, fatte le dovute proporzioni, è d’obbligo. Partito dall’avanguardia, a questa tuttavia contraddice: non lascia l’opera “aperta”, ma chiude il suo discorso, o crede di chiuderlo; e, in un certo modo ancora una volta “miracolistico”, approda alla poetica del “fanciullino” che si incanta e non sa perché. Lo stesso Fellini così definiva la propria opera: Qualcosa che oscilla fra una sconnessa seduta di psicanalisi e l’esame di una coscienza sconclusionata; un film malinconico, quasi funebre, ma volutamente comico. Sono sempre autobiografico, anche quando mi metto a raccontare la vita di un pesce. E tuttavia posso dichiarare che questo film è un’opera di fantasia, ed è fra i miei quello che meno si riferisce a piccoli fatti personali. Ho raccontato una fiaba e non c’è niente da capire oltre quello che si vede. E’ forse in fondo la storia di un film che non sono riuscito a realizzare” .

Anche nei palmares  italiani di quell’anno, il film rastrellò meno riconoscimenti  (che furono comunque molti) di quanti avrebbe potuto meritarne (ma erano anche anni straordinari e irripetibili per la salute e l'inventiva del nostro cinema, che era molto difficile per un solo film riuscire a fare l’en plein in tutte le categorie e di questo dunque non ci sarebbe da meravigliarsi troppo). Il “Nastro d’argento” fu ad ogni modo suo e insieme a quello, vinse anche i  premi per il miglior soggetto originale,  la miglior sceneggiatura originale e quello per la migliore attrice non protagonista (Sandra Milo), per la fotografia (Gianni di Venanzo), per la colonna sonora (Nino Rota)  e per la produzione (Angelo Rizzoli).

Niente passaggi da Cannes o Venezia poi, ma un approdo importante al Festival di Mosca (allora ancora molto in auge) dove si aggiudicò il premio più prestigioso.

Si rifece inoltre alla grande l’anno successivo (il 1964) aggiudicandosi  l’Oscar per la miglior pellicola in lingua straniera e quello per i migliori costumi (vinto da Piero Gheradi), oltre ad altre tre nomination (per la regia, la sceneggiatura e la scenografia).

Internazionalmente fu comunque accolto da subito per quel che era (un capolavoro) e si piazzò immediatamente  “molto in alto” nell’immaginario collettivo, fino ad assurgere al ruolo di vero cult: valutazioni altissime che si sono progressivamente (e meritatamente) gonfiate (Sadul per esempio si espresse così: “Attraverso un regista che tenta di rimettere insieme i frammenti di un suo passato, per trovarvi un senso e “cercar di capire”, Fellini, giunto “nel mezzo del cammin di nostra vita” ha tentato la sua grande opera, la riflessione dell’autore sulla sua arte , il film sul film. Sarebbe ingiusto pensare che il suo proposito riguardasse soltanto il cinema e i suoi costumi, o stimare “sconnessi” un racconto e un’interpretazione vigorosamente elaborati. Sequenze celebri: i degenti d’una fantomatica cittadina termale; l’evocazione della vita in un collegio di religiosi; un harem immaginario in cui il protagonista domina la moglie e le altre donne a colpi di frusta, una prostituta enorme che balla su una spiaggia per degli adolescenti; il balletto burlesco organizzato, alla fine, davanti alla “rampa di un missile destinato a salvare i superstiti di un’umanità distrutta dal flagello atomico” (Fellini). Quest’opera singolare che ha ottenuto il Gran Premio al Festival di Mosca, è stata accolta con minor entusiasmo de “La dolce vita”, anche per le difficoltà di un linguaggio nuovo e moderno, mediato da grandi esempi letterari (soprattutto Svevo). La parte autobiografica è evidente e, spesso, invadente, ma la ricchezza del film è straordinaria: una continua invenzione figurativa e narrativa lo sostiene e fa accettare anche le sue parti più deboli, il simbolismo abituale che nel finale – col suo “circo” in cui in un unico abbraccio l’autore raccoglie moglie e amante, amici e nemici, presente e passato, realtà e sogno, - gioca sulla sua stessa mistificazione.”

 

Il tempo ci ha poi ampiamente abituati a confrontarci con ben più ardui “rompicapi” e  a districarci  in cerca del filo conduttore, dentro “letture “ decisamente più ostiche e cervellotiche, ma proprio per questo affascinanti e alla fine persino “comprensibili” poiché riusciamo sempre, sia pure con qualche difficoltà, a dare loro un senso (penso ad esempio al cinema di Lynch o di Von Trier) tanto che non dovrebbe più spaventarci  questo ”estremo“ esperimento felliniano datato 1963  che in prospettiva può apparire (ancora? ma siamo proprio sicuri?) monumentale, ma nel complesso abbastanza lineare proprio nell’individuazione “certa” delle sue valenze culturali. Eppure non tutti sono ancora in grado di penetrarlo e di valutarlo oltre le apparenze (svogliatezza? indisponibilità a mettersi in gioco? superficialità?) Io non saprei proprio dire, ed è semmai per me questo il vero “rompicapo” (ma sui gusti e le percezioni non si può certo discutere né eccepire: mi piacerebbe semmai proprio rispetto ai  “no”, acquisire motivazioni di contrasto un po’più articolate perché mi sembra che il semplice “non ci ho capito nulla” sia oggettivamente difficile da accettare (almeno come unica motivazione). Credo infatti che con un minimo di concentrazione, il film  risulti adesso abbastanza chiaro, tanto che si potrebbe benissimo arrivare a una conclusione (che immagino condivisibile dalla maggioranza se non proprio da tutti), e cioè che il film (semplicizzando un poco) non elabora una tesi sull’arte, né si addentra in una mera indagine psicologica, ma apre piuttosto una finestra di conoscenza su tutti noi, artisti e no,  uomini e donne (Jean-Michel Frodon). La pellicola offre infatti due possibilità di lettura che vanno in parallelo: la prima riservata a un clan di amici e conoscitori in grado di cogliere ai vari livelli i tanti  riferimenti  multibiografici che sono stati travasati dentro e di scoprirci (divertendosi anche), queste sotterranee chiavi del racconto (per esempio quella di “accorgersi” che l’attrice straniera interpretata da Madeleine Lebeau, con le sue nevrosi, altro non è se non il ricordo “esorcizzante” delle noiose discussioni  avute dal regista con Luise Rainer durante i colloqui preliminari per La dolce vita; la seconda (che è poi quella che interessa il comune spettatore) è che il film regge davvero molto bene (anche al passare del tempo, che anzi finisce per esaltarne le qualità), che l’ambiente e la sua fauna sono evocati con tratti di fine umorismo e che i fatti illustrati hanno una importanza secondaria rispetto al cuore del problema, che è poi la domanda fondamentale, quella che si pone la ragione rispetto alla nostra presenza nel mondo. L’universo privato del regista, coincide infatti abbastanza  con quello dell’italiano medio, solo che qui si ha il coraggio di portare tutto a galla e di mettere in mostra ogni cosa (e questo potrebbe facilitarne la comprensione.) 

Se non vogliamo fare altro, arrendiamoci almeno allo splendore del suo magnifico bianco e nero, alle sue inquadrature geometriche e irreali, al superbo, suggestivo uso dei suoni e delle immagini,,, e il positivo risultato è assicurato, poiché credo  meno che entusiasti dalla sua visione, soprattutto adesso che sappiamo abbastanza bene che il cinema ha una struttura rappresentativa molto composita, e che  la storia, il soggetto come esposizione narrativa, è solo  una delle componenti, ma non necessariamente (e sempre) la più importante. Al cinema insomma (non mi stancherò mai di ribadirlo), più che ciò che si racconta, è importante e fondamentale “come lo si racconta” e questo spesso fa la differenza.

Per i movimenti successivi di pensiero, mi permetto di riportare qui di seguito ciò che ha scritto Mario Verdone nella sua monografia su Fellini (il Castoro):

" Sorvoliamo sul fatto che in certi momenti il film rimandi a Bergman (Il posto delle Fragole) o a Resnais (L'anno scorso a Marienbad). Sarebbe come se le somiglianze - ben più potenti - tra A nous la liberté e Tempi moderni vietassero a uno dei due di diventare opera artistica. E diamo per discussi, per superati, i motivi critici che riguardano l'idea di partenza del film. Fermandoci ai traguardi di certe sequenze, il discorso non può non rifarsi alla maestria registica di una rappresentazione che è tutta pensata cinematograficamente: oltremodo efficace dal punto di vista figurativo (i quadri lunari dei giardini termali), fusa musicalmente con i ritmi visivi del film (la ripresa dello slancio del regista, dopo aver sfiorato il suicidio), ricca dei ricordi dell'infanzia (la casa di Romagna, la spiaggia con la Saraghina), approfondita nella decorazione (dove i "confessionali " sono coerenti anche col gotico de La dolce vita) e sapiente nell'impiego degli attori (soprattutto Sandra Milo) o dei personaggi di contorno (le donne-preti); puntualizzata rigidamente nei dialoghi; infine festosa come un music-hall nell'harem, e con gusto da "parade" nella sequenza finale che acquista la pateticità di una scena da circo: dove la poesia interna di un personaggio come il regista Guido Anselmi, alias Federico Fellini, si esteriorizza nell'immagine. E mi ricorda una "entrata" celebre dei Fratellini i quali, al termine del numero, si ritiravano come "dissolvendo" raccolgiendo sulla pattumiera l'ultimo raggio di luce, per portarlo via. Anche i personaggi di Fellini, qui, giocano la loro ultima scena dentro un raggio di luce, che si stringe fino a sparire".

Ancora successivamente Fernaldo di Giammatteo e Cristina Bragaglia (o chi per loro) nel volume . Capolavori del Cinema”, si sono espressi così: ", con La dolce vita rappresenta la summa dell'opera felliniana. A un capolavoro proiettato verso l'esterno (la società, la cultura, le ideologie, le istituzioni) segue quest'altro, che ne ribalta le prospettive e rivolge lo sguardo verso l'interno, il sogno, l'auobiografia. (...) Lo stile di Fellini nasce da un grumo di contraddizioni, si rapprende dentro una cornice fastosa (bianco e nero raffinatissimo di Gianni di Venanzo, scenografia e costumi di Piero Gherardi), si scioglie in un ritmo morbido, fluisce leggero sulla scia della musica di quel suo timido alter ego che è Nino Rota. L'armonia fra le varie componenti è così perfetta che lo spettatore quasi non si avvede di trovarsi di fronte a un autentico film sperimentale, un tentativo -riuscito - di rinnegare i sentimentalismi autocompiaciuti di opere pur grandi come La strada e Le notti di Cabiria per creare un linguaggio libero da impacci, aereo, stupefacente, barocco, per allestire la messinscena di un mondo interiore folto di umori, rancori, ambizioni, paure: il produttore-padrone, l'amante festosa e concreta, la moglie comprensiva (ma non troppo), il pascoliano fanciullino, i mostri dell'infanzia, le spine della critica, la vanità repressa, il bisogno di fuga. La girandola delle invenzioni e la profondità delle idee (la vita, la morte, l'amore, l'arte) fuse in una sintonia perfetta".

Termino infine inserendo a conclusione del viaggio, un pezzo scritto da Italo Calvino (Autobiografia di uno spettatore) come, prefazione a “Federico Fellini: quattro film (I vitelloni, La dolce vita, 8½, Giulietta degli spiriti)” – Einaudi editore, 1974

 (…) In Fellini il suo anti-intellettualismo programmatico non è mai venuto meno nemmeno quando il suo linguaggio si è fatto più sofisticato: l’intellettuale è per Fellini sempre un disperato, che nel migliore dei casi s’impicca come in , e quando gli scappa la mano come nella Dolce vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti (la stessa scelta in Roma viene compiuta in epoca di stoicismo classico). Nelle intenzioni dichiarate di Fellini, all’arida lucidità intellettuale raziocinante si contrappone una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell’universo (…) anche se poi  alla ptrdrnza di una scuola-chiesa repressiva, Fellini contrappone quella più vaga d’una chiesa mediatrice dei misteri della natura e dell’uomo, che non ha lineamenti come la monaca nana che rappacifica il folle sull’albero in Amarcord, o che non risponde alle domande dell’uomo in crisi, come il vecchissimo monsignore che parla degli uccelli in , certo la più suggestiva, indimenticabile immagine del Fellini religioso.(…) Per lui, tanto la provincia vitellona quanto la Roma cinematografica sono gironi dell’inferno, ma sono  anche insieme  godibili Paesi di Cuccagna. Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino. (…) Nei  tempi stretti delle nostre vite tutto resta dunque lì, angosciosamente presente (…): la fine del mondo è cominciata  con noi e non accenna a finire, e ci rendiamo conto allora che il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori, si è trasformato invece nella storia della nostra vita. (Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, prefazione a “Federico Fellini: quattro film (I vitelloni, La dolce vita, 8½, Giulietta degli spiriti) – Einaudi editore, 1974

 

[1] Termine utilizzato nella forma corrente virata al positivo  che attribuisce alla parola il significato di “balenante”, “fiammeggiante”, “che irradia una intensa luminosità” (Enciclopedia Treccani).

[2]. Direttore di Cinema Nuovo (e autore di molti volumi , fra i quali  Storia delle teoriche del film; L’arte del film; Dall’Arcadia a Peschiera – in collaborazione con Renzo Renzi e Piero Calamandrei; Romanzo e Antiromanzo; Miti e realtà nel cinema Italiano;  Il dissolvimento della ragione ) è stato un critico e saggista adesso passato un po’ di moda, ma un tempo fra i più seguiti, apprezzati e temuti, che ha influenzato (nel bene e nel male) alcune generazioni di critici di formazione marxista fra i quali Ugo Casiraghi, Adelio Ferrero, Ugo Finetti, Guido Fink, Paolo Gobetti, Franco Valobra, Vittorio Spinazzola, Maurizio Del Ministro e Lorenzo Pellizzari.

                                                                 

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