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Figli di una serie minore (4) - Under the Dome
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Perché non esistono solo le grandi, quelle che “sono meglio del cinema” e avvinghiano gli spettatori a personaggi e situazioni indimenticabili. Perché ci sono anche quelle che, giornalmente, fanno il lavoro sporco di riempire i palinsesti delle tv generaliste (a pagamento e non), mediani di vecchia scuola (ne cantava Ligabue) che non segneranno mai, gregari che non vinceranno mai una gara (mal gliene incoglierebbe !) e sparring partners contiani a vita. Che sgomitano a metà classifica per un posto in una graduatoria Emmy e offrono rifugio ad attori snobbati o bolliti dallo “show business” cinematografico (a torto o a ragione). Che sono mediocri e felici di esserlo, creano dipendenza nel seriofilo accanito, siano esse autoconclusive o lostiane nell’intreccio, procedurali o gialli classici, comedy o fantascientifiche. Che si possono guardare con un occhio solo e pochi neuroni collegati, mentre si prepara o si consuma la cena.

Ma delle quali, spesso, non si può fare a meno.

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Under the Dome è una serie statunitense giunta alla 2° stagione (con una terza in lavorazione) andata in onda dal 2013 sulla rete CBS e quasi in contemporanea trasmessa dall’italica Rai 2, nata sull’ispirazione del quasi omonimo libro del 2009 (The Dome) di Stephen King.

 

 

L’azione prende l’avvio nell’immaginaria cittadina di Chester’s Mill, nel Maine, improvvisamente imprigionata da una gigantesca ed impenetrabile cupola invisibile, che ne isola gli abitanti dal resto del mondo.

Non c’è un singolo protagonista, il proscenio è infatti corale, ma si possono senz’altro indicare come figure base quelle di Dale “Barbie” Barbara, interpretato dal poco espressivo Mark Vogel, della rossa Julia Shumway, interpretata dalla graziosa Rachelle Lefevre, e quale antagonista principale James “Big Jim” Rennie, interpretato dal veterano Dean Norris (l’Hank Schrader di “Breaking Bad”); in più una pletora di coprotagonisti utili ad intervallare gli accadimenti di puntata per dare, almeno come idea iniziale, una costruzione drammatica energica e costantemente in evoluzione.

 

 

 

 

La trama, ovviamente verticale, ci racconta le peripezie degli imprigionati per sopravvivere alla progressiva mancanza di materie prime e per cercare di capire l’origine della comparsa della cupola, in puntate con problemi “di giornata” da risolvere e con un finale normalmente positivista, secondo la tradizione consolidata della serialità leggera di scuola U.S.A. (nessun problema, per quanto grave, può abbattere per molto lo spirito combattivo dell’americano medio). Tematiche che poi si intersecano con il chiodo fisso dello scrittore del Maine (presente con una comparsata nel 1° episodio della 2^ stagione), cioè la rappresentazione ultrapopolare dei conflitti umani in comunità piccole e definite (“Metti due persone in una stanza e quelle troveranno un motivo per uccidersi!”- cit), di solito stressati da un elemento fantastico scatenante, che lo scrittore descrive magistralmente in quasi tutti i suoi lavori (eccezionalmente, per chi scrive, in “Cose Preziose” del 1991, uno dei suoi migliori per costruzione drammatica poi incredibilmente rovinato da un finale imbarazzante).

 

 

L’eccesso “ultrapop” dello scrittore, spesso alle prese col mezzo televisivo da sceneggiatore, ha prodotto risultati sconfortanti quali i film “I sonnambuli” (1992) e “Desperation” (2006) di Mick Garris, o miniserie vedibili ma non eccelse quali “L’ombra dello Scorpione” (1994) e “La tempesta del Secolo” (1999), con lo stesso regista statunitense alla regia. In questo caso il suo zampino appare non accreditato ma palese nella continua presenza di estenuanti momenti culminanti, nell’ordine di una decina per episodio (circa il doppio di una puntata media del comunque ben bilanciato “Lost” o dello sgangherato ma simpatico “Haven”), che consentono allo spettatore di godersi uno spettacolo sbilenco e improbabile ma (almeno per la prima stagione) (in)volontariamente divertente nel suo tentativo di creare tensione ricorrendo all’accumulo situazionista.

 

 

La seconda stagione, che vede l’ingresso tra gli altri di vecchie glorie della tv quali Sherry Stringfield (la Dr.ssa Susan Lewis di “E.R.), nei panni della moglie “veggente” di “Big Jim” Rennie, e di Eddie Cahill (il detective Don Flack di “C.S.I.:NY”), il di lei fratello, invece vanifica tutti i pochi spunti interessanti finora proposti. Il plot si discosta dalla fonte letteraria e trascende il ridicolo in quasi tutti i 13 (per fortuna brevi, una quarantina di minuti) episodi che la compongono, ingarbugliando oltre l’immaginabile le interazioni tra i vari protagonisti e comprimari (aumentati notevolmente [e inutilmente] di numero rispetto alla prima annata). Il generatore di “cliffhanger” per episodio, poi, sembra aver acquisito coscienza propria, viaggiando ben al disopra della doppia cifra e producendo effetti oltre il grottesco. Se a tali elementi aggiungiamo la crescente inconsistenza di tutto il cast e i dialoghi vanamente arrembanti ma staticamente stancanti nella loro prolissità e ripetitività, avremo un quadro completo del naufragio totale della seconda stagione (e della serie tutta).

 

 

Per la quale sarebbe, probabilmente, necessitata più stringatezza (inimmaginabili gli sviluppi della terza stagione [!] in lavorazione: ci sarà da scavare, probabilmente) ed una maggiore aderenza allo scritto alla base del tutto. Perché, mai come in questo caso, resta valido il vecchio e scontato adagio del recensore dilettante in vena di semplificazione: “era meglio il libro”.

 

Voto:            *½

Aura Scult: **

 

Puntate precedenti:

- Haven;

- The Mentalist;

- Bones.

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