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Speak - Le parole non dette
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Voto: 8/10.

 

Pubblico: imdb 7,4/10 – rottentomatoes 4,0/5 – mymovies (IT) 4,0/5 – allociné (F) 4,2/5 – screenrush (UK) 3,1/5 – moviepilot (DE) 8,0/10 – kinopoisk (RU) 7,4/10 – mtime (CI) 8,3/10
Critica: rottentomatoes 4,0/5 – mymovies (IT) 3,0/5

Dizionari: –

 

Melinda Sordino (K. Stewart) è un’adolescente al suo primo giorno di liceo. Vive in un quartiere come tanti di Syracuse, stato di New York, al civico 121. Ma non tutto, nella sua ancora breve esistenza, è simmetrico e perfetto come farebbe pensare questo numero palindromo. O meglio, qualcosa l’ha cambiata per sempre, facendola rinchiudere in un guscio come fosse una tartaruga. In apparenza era solo una telefonata al 911 durante la festa di fine anno scolastico, ma che non le è stata perdonata dalle sue migliori amiche, Rachel (H. Hirsh) in testa. Anche in casa la situazione non è prettamente ideale: la madre (E. Perkins) è in terapia, la figura paterna (D. B. Sweeney) non è proprio incisiva. Alla figlia vengono così riservate attenzioni solo superficiali. L’apertura dei cancelli della Merryweather High rappresenta un gradino in più, che Melinda non è però in grado di superare. Il muro che si è interposto fra lei e il suo ex gruppo la tiene in trappola, scalfito solo da due compagni, Heather “dell’Ohio” (A. Siko) e Dave Petrakis (M. Angarano), e dal professore di Arte, Mr. Freeman (S. Zahn).

 

 

Dopo alcuni corti, nel 2004 la regista (e produttrice, fra gli altri, del serial “American Horror Story”) statunitense Jessica Sharzer realizza questo suo primo (e per ora unico) lungometraggio adattando il romanzo per young adult “Speak” della connazionale L. H. Anderson (che si ritaglia un cameo). Costato appena un milione di dollari, spalmato su 21 giorni di riprese a Columbus (Ohio), è stato presentato in una manciata di festival fra cui il Sundance, a cui però non è seguita una distribuzione nelle sale. In Italia il film è stato editato in dvd (in lingua originale con i sottotitoli italiani), inserito in un cofanetto assieme al libro. La Sharzer opta per una trasposizione fedele dell’opera scritta (che ho letto successivamente), soprattutto nella complicata caratterizzazione della protagonista, mantenendone prima di tutto il punto di vista. Un’impresa non certo semplice, quando si tratta di comunicare emozioni, stati d’animo e dolore con gli occhi più con le parole. Una storia dai risvolti drammatici nei quali però penetra in piccole dosi anche il sarcasmo di Melinda, che altro non è se non un filtro attraverso cui (de)codificare ciò che la circonda. Non tutti i compagni di classe sono uguali: c’è sì l’ex migliore amica France-addicted Rachel(le), ma anche la forestiera Heather (che con la protagonista instaura un rapporto home-guest, come da score table sportivo) oppure l’alleato e combattivo Dave. Allo stesso modo gli insegnanti: se da una parte ci sono quelli di storia, Mr. Neck, xenofobo e ultra conservatore, e di biologia, la scienziata mancata Keen, dall’altra ci sono la prof di inglese, anch’essa emarginata, quasi anonima (ribattezzata “DonnaPeli” a causa dei capelli che le nascondono il viso), e il signor Freeman, il primo che penetra davvero la corteccia fatta di silenzi della ragazza. Si potrebbe obiettare che molti personaggi collaterali siano dei topoi, delle maschere, ma il film, tanto sul piano narrativo quanto su quello visivo, gioca molto con cliché e simbolismo (vedi il tema di punizione). Operazione rischiosa ma riuscita, perché connaturata con lo stesso habitat della protagonista. Dopotutto cosa sono se non stereotipi o etichette i gruppi (gli Atleti, le Marte, le Sgallettate Capellone, le Cheerleader, Quelli del Country, lo Spreco Umano…) in cui sono divisi gli studenti, l’argomento (le suffragette) per la ricerca di recupero, l’oggetto (l’albero, simbolo che impregna tutto il film) del corso d’arte di Freeman… E la scelta di ambientare le vicende a Syracuse, cittadina “provinciale” e fredda (come gli inverni da quelle parti), non è casuale e accentua perfettamente l’isolamento, l’emarginazione. E poco importa se ci si trova tra le mura domestiche (dove Melinda è spesso “sullo sfondo” o ai margini, anche quelli dell’inquadratura) oppure in classe (con la prof d’inglese che fatica a non oltrepassare il bordo della lavagna).

 

 

Forse la regista non restituisce appieno l’ironia e la sagacia della pagina scritta, per il resto però la sua macchina da presa, complice la buona sceneggiatura (categorie per cui il film è stato nominato dalle rispettive associazioni americane), riesce alla perfezione a pedinare empaticamente la protagonista e il suo percorso di crescita per l’intero anno scolastico. Parte del merito della riuscita complessiva va naturalmente all’intensa interpretazione dell’allora tredicenne Kristen Stewart, che tratteggia i confini di un dolore interiore insopportabile di cui ne intravvediamo soltanto l’ombra.

Un college-movie che si discosta dai canoni del genere, un racconto di formazione che “parla” di incomunicabilità (in tal senso la sequenza clou è quella dei regali di Natale), di emancipazione e di seconde chance. Da vedere.

 

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